Mi sono imbattuto per la prima volta nella poesia di Rita Iacomino al tempo di Dura verticale, il prezioso libretto pubblicato da Peppino Appella nelle prestigiose Edizioni della Cometa ereditate da Libero De Libero. Prima di quella pubblicazione, però, l’autrice aveva partecipato al Premio Montale per l’inedito con una silloge intitolata Luoghi impraticabili nella memoria, che fu inserita nell’antologia del Premio edita da Vanni Scheiwiller. Sarebbero seguiti titoli come Poemetto tra i denti e Diario di un finto inverno.
Di Dura verticale (era il 1999) mi colpì il rigore; fui preso dall’esattezza, dalla misura degli aggettivi, segno ulteriore proprio di quell’esattezza ostinata con cui la scrittura reagiva alle sollecitazioni del mondo. Ora tutti questi titoli, considerati insieme, compongono una sorta di sistema: parlano, cioè, di una poesia della durezza, intesa non solo come durezza dell’esistere, ma anche come durezza della modalità dell’esistere. Insomma, siamo di fronte a una durezza ontologica, che investe l’individuo e lo circonda del tutto.
Tale durezza, nell’ultimo, appassionato lavoro di Rita Iacomino, Dalla sparizione del mondo (pubblicato da Sergio Pandolfini nelle Edizioni il Bulino, con opere di Franco Mulas consegnate dall’artista poco prima della sua scomparsa) avvolge necessariamente anche la parola profetica; e il personaggio che si affaccia in questi versi non è un severo io giudicante come ci attenderemmo per esempio da una scrittura veterotestamentaria, ma una donna alla quale il dono della profezia si è rivelato come un’atroce condanna. Parliamo di Cassandra, da sempre, con Ipazia, ipostasi di una femminilità connotata dalla sapienza e dal coraggio: entrambe sono travolte dal crollo delle loro rispettive civiltà. Cassandra si trova attanagliata tra l’amore e la sventura, due poli in apparenza opposti ma strettamente connessi anche nella tradizione letteraria d’Occidente; il suo rifiuto dell’amore di Apollo la conduce verso parole di sventura, le sole che potrà pronunciare, ogni volta inascoltata e mai creduta, nelle sue meste profezie. In lei il veicolo di trasmissione della verità si è come inceppato; le sue verità scomode, eppure salvifiche, vengono ignorate e la tragedia annunciata potrà compiersi nel pieno dei suoi effetti nefasti.
Questo aspetto del personaggio consente, a quest’altezza del tracciato poetico di Iacomino, di poter verificare a cosa reagisca quella durezza che lo caratterizza: l’«indecenza», quella che induce non alla negazione, ma a una tacita, conformistica, alienante sopravvivenza. È questa la tragedia che avvolge la tarda modernità di questo poemetto. «Sopravvivere all’indecenza», questa è la recita, questo il ruolo da affrontare. All’insegna di quella durezza e di quella severità, così pervasive nella scrittura di Iacomino, verrebbe fin troppo semplice identificare la protagonista di questa nuova impresa con la stessa autrice. Eppure in Cassandra c’è qualcosa di Rita, ma passato attraverso un filtro essenziale, quello della teatralizzazione, attraverso cui il poeta può preservare il proprio tasso di liricità e dire tranquillamente «io» senza esibirsi in modo diretto, ma nelle parole del personaggio. Del resto, è un espediente antico che le nostre lettere perpetrano in modi diversi almeno da Dante, fino a Giudici nel pieno del Novecento.
Per parlare di sé, conservando il coraggio e il privilegio della prima persona singolare, si può scegliere la via del teatro. È quanto accade qui: «Dovevo interpretare Cassandra», scrive Iacomino, ma a parlare sono almeno due voci, quella del mito e quella della realtà, quella del personaggio e quella dell’autrice. Cassandra ha infatti un altro nome, è figura dal doppio nome; invano lo cercheremmo nel suo equivalente greco, Alessandra, perché a ben vedere quest’alterità contempera quella di Rita, ma anche quelle degli altri miti che possiamo richiamare e confrontare come esempi precisi e perfetti di enantiodromia. Dure sono le parole della profezia, inascoltabili, inaccettabili e perciò respinte; dure sono le parole della poesia. L’autoriflessività del discorso poetico si travasa in quella della predizione e viceversa.
Mito e storia si reggono su un contrasto apparente (il mito è una parola scelta dalla storia, scriveva Barthes) e in questo poemetto appartengono alla stessa sostanza ingannevole. Tra i nomi che Cassandra evoca, e dai quali prende le distanze, ci sono forti contrasti in effetti: per esempio Medea, la madre che uccide i figli, e Cornelia, la madre devota; quindi entrano in scena Arianna e il Minotauro, ovvero la complice dell’uccisore e la vittima. Tra di loro è Sisifo, l’emblema dell’inutilità della fatica umana. In realtà Cassandra è tutte queste cose insieme, è lei stessa un catalogo dei destini infausti: «sempre e solo Cassandra», ovvero sé stessa e il destino che si trova a incarnare e che è il suo più vero drammaturgo. Essendo il destino umano un modello di finitudine, e dunque collimando con la morte - l’orrido nulla di Leopardi che inghiotte ogni realtà - non poteva mancare in questo catalogo tragico tra mito e storia anche un riferimento dantesco al canto di Ugolino della Gherardesca. L’«Opera» inscenata, ovvero quella del grande, instancabile «ordinatore mitico», rappresenta una «storia» (antropomorfizzata) che infine «sazia / ripulisce i denti dai residui del gran banchetto» e Cassandra stessa si ritrova «espunta / dalla stupida dentiera della morte / residuo anch’io del pasto orrendo».
Come la fortuna degli antichi, anche la morte per Cassandra è «stupida» nel senso di cieca, poiché coglie ogni forma di vita indiscriminatamente e inconsapevolmente, perpetrando per l’appunto un destino. In quest’opera dal «dire sincopato», che richiama il «balbo parlare» del primo Montale, il destino è ineludibile e nella nostra corsa verso il suo compiersi, nell’attraversare l'eterno divenire delle cose, si realizza proprio quella forma di enantiodromia eraclitea, quel congiungersi con i propri opposti che segna per intero il personaggio della profetessa non creduta. «Gli eventi danno conferma delle previsioni: / le previsioni erano l’evento», scrive Iacomino, recuperando qualcosa anche del linguaggio giuridico, per cui il carattere ragionevole della previsione è prova della rappresentazione in negativo dell’evento. Possiamo leggere quel negativo come uno stadio fotografico prima del vero compiersi dell’evento, insomma del suo positivo, o come suo contrario, ancora una volta nel solco dell’enantiodromia; perché ciò che Cassandra vede in anticipo «è già presente» e la corsa del tempo, in cui vita e morte si fronteggiano incessantemente, cerca di eludere la verità, «chiarezza che abbaglia», «dolore insopportabile», aprendo lo spazio all’«ignoranza», altra forma di quell’«indecenza» da cui abbiamo preso le mosse. Un altro mito è qui alluso, ed è metafora stessa del potere metamorfico della poesia: quello di Perseo che riesce a uccidere Medusa sottraendosi al suo sguardo letale, pietrificante, semplicemente seguendone le mosse riflesse sul proprio scudo. Non l’immagine diretta, quindi, che di fatto accecherebbe l’osservatore, ma quella riflessa, verosimile e non vera. Così, riprendendo un’inarcatura notevolissima di Leopardi, dagli ultimi versi dell’Infinito, il soggetto di questo poemetto, colto in «questa / immensa dolorosa ubriacatura» che è la nostra Storia, ambisce alla «sparizione del mondo» per proiettarsi in un’anteriorità primigenia, in una culla mitica delle origini («questo giardino vivo / a cui incessantemente torno»), quando la Storia poteva ancora essere ogni storia e un’infanzia edenica poteva ancora arginare il dolore a venire. Ma di tutto questo, come già scriveva Baudelaire, resta soltanto il desiderio, e il «secret douloureux qui me fasait languir», quel «male chiuso dentro il mio languire».
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