mercoledì 19 luglio 2023

A Roma il 25 luglio per Tito Balestra

Ricorre quest'anno il centenario della nascita di un poeta importante quanto ingiustamente trascurato dalla critica e dalla storiografia: Tito Balestra.

Due libri da Garzanti: Quiproquo nel 1974 e postumo, nel 1979, Se hai una montagna di neve tienila all'ombra, entrambi accompagnati da risvolti di Attilio Bertolucci.

Balestra fu amico di poeti come De Libero, Gatto, Penna, incontrò numerosi galleristi e artisti, di cui divenne collezionista.

Oggi la sua collezione è custodita presso la Fondazione a lui intitolata, in Romagna, a Longiano, suo paese d'origine.

Parleremo di lui, presentando la recente riedizione dei due libri per La nave di Teseo, il 25 luglio a Roma, all'Accademia di San Luca.




martedì 27 giugno 2023

Per Giorgio Ghiotti






Giorgio Ghiotti, con Ipotesi del vero (LiberAria), fa un regalo ai suoi lettori, perché ci consegna due libri in uno: il primo, che dà il titolo all’intero volume, e il secondo intitolato L’andare e l’addio. Eppure ciò che a prima vista potrebbe apparire un’operazione di pura convenienza editoriale, si mostra poi sotto un’altra impressione: ovvero che questi non sono due libri così distinti, ma due realtà complementari. Sono le due macro-sezioni perfettamente consequenziali di un unico progetto. Non so quanto Ghiotti ne sia stato consapevole; ma se non a un vero e proprio progetto, certamente l’autore si è lasciato guidare in un percorso. Chiarirò a breve da chi.

Ci sono diverse linee tematiche che legano questi due libri tra loro. Vorrei parlare di quella più evidente, che è il collante più forte: la memoria. Una memoria che Ghiotti declina e intende sia come memoria privata, sia come memoria letteraria. Anzi, per lui si tratta a ben guardare di un’unica dimensione; la frequentazione della poesia passata e di quella presente (ma si tratta di categorie di servizio, la poesia non ha tempo, è sempre squisitamente inattuale ovvero attuale sempre) è per Ghiotti, naturalmente e semplicemente, abitare la propria casa, sentirsi nel clima più autentico, stare a proprio agio. La poesia è davvero il suo ubi consistam, senza sminuire gli altri suoi aspetti (il narratore, l’editore, il recensore), ma ribadendo che – come già per Pasolini – essa è lo spazio assoluto che permea di sé anche il resto.

La memoria, come ci ricorda Leopardi, è un formidabile filtro deviante rispetto a ogni nostro passato, vero e presunto, immaginato (finzionato, vorrei dire) o vissuto. Questo perché ogni atto di memoria è agito da una fondamentale corrente affettiva, e questa corrente passa, trascorre senza soluzione di continuità tra i due libri e li cementa. Mi viene da pensare che la prima macro-sezione sia ispirata a un amore inteso come lo intendevano i latini con la parola per me più bella del loro vocabolario: cura. Cura vuol dire (riporto proprio quello che trovo nel vocabolario, alla lettera): pensiero, sollecitudine, amministrazione, ricerca, opera, amore. Vorrei solo aggiungere un altro termine per me essenziale ma che è nella fisionomia culturale di Ghiotti: studio. Perché studium, per l’appunto, vuol dire passione, desiderio, amore, insomma cura.


Dunque possiamo spiegarci il titolo Ipotesi del vero. La memoria, in questi versi, trasuda affettività, cura. Tutte le declinazioni del concetto esprimono in pieno ciò che è della personalità di Ghiotti, ciò che lui fa con la poesia altrui e propria. E se quell’affettività devia la realtà del passato – che non esiste più di fatto – allora quel vero che ne possiamo trarre e conservare è l’ipotesi che più ci somiglia. Somiglia a noi, intendo, a lui. La prima parte, il primo libro, è l’esercizio della memoria come cura, ovvero come recupero, conservazione di un vero che corrisponde a una precisa costellazione chiamata Roma.


Questo è il libro del ritorno di Ghiotti nella sua città, nella città dei poeti, dopo la parentesi milanese. E, neppure troppo in filigrana, ci sono pressappoco tutti. Non voglio qui cedere al gioco dei nomi e dei riconoscimenti delle citazioni, il lettore avvezzo alla poesia saprà riconoscere quanto passa, qui, della poesia, soprattutto quella a partire dagli anni settanta. Questo è dunque il segmento della cura; e la cura agisce a livello testuale proprio cavalcando quell’onda affettiva. In questi testi c’è Ghiotti e ci sono tratti che Ghiotti assimila dal di fuori, da un alter ego plurimo che è quella costellazione romana. Nella seconda parte, invece, la cura si fa consegna. È l’altra parte, complementare, del processo amoroso: recupero e consegna, ciò che un tempo si chiamava tradizione. Ecco la complementarità; e infine, aggiungerei, anche l’omogeneità tra i due libri, nel senso che Ghiotti non riproduce, ovvero non imita. Alla fase dell’imitazione, che è un processo di appropriazione, segue piuttosto quella dell’emulazione, che è un processo proprio di reinvenzione affettiva. Così il testo, da una pagina all’altra, atteggia alcuni tratti che Ghiotti da lettore ha già fatto suoi, ma che adesso deve ricreare a suo modo, alla maniera che è indiscutibilmente sua. Per fare un esempio, il ritmo nervoso, scandito non dalla punteggiatura ma dai trattini (la vera punteggiatura di Emily Dickinson) che Anna Cascella ha fatto suoi, diventano qui una vera e propria reinvenzione di Ghiotti, quasi un colpo di teatro. Ancora, sentiamo una sicura cadenza montaliana come si trasforma in un’immagine che non può essere che di Ghiotti, per poi riassumersi in un nuovo correlativo che è un altro espediente di recupero mnestico:

 

Il vento che proviene dal salone

fa il paio con il canto dell’acquaio

e io non ho memoria e se mi sporgo

dal bordo del lenzuolo giù dal letto

interrogo quel paio di pantofole

che certo, potreste essere mie, la taglia

è giusta, eppure m’insospetto e mi fa voglia

di andare al fondo al modo degli oggetti

di attendere qualcuno, essergli forma

[…]

 

Potrei fare altri esempi, ma credo che a questo punto l’atteggiamento di fondo del libro sia chiaro. Ipotesi del vero è dunque un grande atto d’amore per Roma, città di poesia ancor prima che realtà metropolitana. Possiamo evincere come Ghiotti moduli – ormai con una certa sapienza – questa sua affettività da un’altra retorica (nel senso più alto e tecnico) del movimento linguistico, ovvero la variazione. Roma ha una e mille anime e altrettanto diversi sono i suoi poeti. Cosa li accomuni è impossibile a dirsi, nonostante i tentativi fatti ma poco esaustivi, come è impossibile racchiudere questa città in una sola definizione, in una formula onnicomprensiva. Roma è complessa, molteplice, sfuggente. Così a ogni testo è come se Ghiotti si sia incamminato in un quartiere diverso, recuperando immagini da tradurre in versi, ma ben sapendo, come ogni autentico viaggiatore, o meglio viandante, che nel suo sguardo scorrono le immagini di chi ha percorso quelle stesse strade prima di lui. Dunque è un viandante immaginario, nel senso che recepisce un immaginario e lo sovrappone al suo.


Questa poesia appare dunque doppiamente riconoscibile, nei suoi segni e in quelli ripresi dal passato/presente. Ipotesi del vero non fa che continuare e corroborare un percorso coerente, di cui un’altra tappa essenziale è rappresentata dalla raccolta La città che ti abita, edita da Empirìa (altro pezzo di quel passato che ci sta lasciando). Direi però che fin dall’esordio, dall’Estinzione dell’uomo bambino Ghiotti abbia saputo cogliere, con insolita lucidità, quel nesso centrale tra memoria e infanzia, intesa come atteggiamento percettivo e non come età, come momento umano. Piuttosto quel momento, dilatato nel tempo e nello spazio come solo la poesia sa fare, è divenuto, se non l’alba di un mondo, l’alba di una città ancora viva: 

 

Io vado da dove tu vieni,

dove bambini gorgogliano

al fondo di fontane

come specchi parlanti di brame,

e i sogni sono camicie che non puoi

lavare. […]

 

Ipotesi del vero è un autentico esercizio di intelligenza del cuore. L’infanzia è «la diga che non tiene», scrive Ghiotti, e non perché tracimi nostalgia del passato; se proprio di nostalgia vogliamo parlare è piuttosto una nostalgia del futuro, come quella di Penna, come quella di Dante nel Purgatorio. Infatti una certa luce purgatoriale ammanta queste poesie; «qui» (ma quanto è ampio questo deittico, che cosa indica davvero?) «è quasi primavera». Siamo allora condotti, con estrema cura, come presi per mano, verso una soglia dove nulla è finito perché ancora tutto accade. Nulla chiediamo alla poesia se non questo accompagnarci.

sabato 17 giugno 2023

«Ipotesi del vero». Le nuove poesie di Giorgio Ghiotti a Roma

È apparso da LiberAria il nuovo libro di poesie di Giorgio Ghiotti.

Lo presentiamo, con Giulia Caminito, alla Libreria Spazio Sette di Roma, venerdì 23 giugno.




venerdì 16 giugno 2023

Il 22 giugno Palermo per Sciascia e Guccione

È appena apparso da Olschki il volume Ladri di luce, a cura di Lavinia Spalanca. In diversi saggi si ricostruiscono i rapporti tra lo scrittore l'artista.

Presenteremo il libro giovedì 22 a Palermo. Alle 16:00, Aula Fioretti, Viale delle Scienze. ed. 4.









lunedì 17 aprile 2023

Annelisa Alleva su «Tempo d'opera» di Alberto Toni

 Quasi un terrore antico





 

 


 

 

            Conoscevo Alberto Toni da anni, e con lui sua moglie Patrizia, a cui ha dedicato tanti versi e l’intera raccolta Poesie per Patrizia

            Ci scambiavamo i libri, conoscevamo le nostre case, parlavamo insieme di poesia, ci incontravamo alle letture.

            Io leggevo le sue raccolte, ma non le capivo fino in fondo. Non capivo l’origine di quell’ansia che traspariva dalla sua persona, una specie d’impazienza di vivere, un nervosismo misto a fierezza che non riusciva a non tradire, seppure il suo sguardo dietro gli occhiali e tutta la sua persona esprimessero benevolenza nei confronti degli altri.

            Quando ho letto la bella e intensa introduzione e postfazione di Roberto Deidier a quest’ultima sua raccolta, Tempo d’opera, e poi ho avuto modo di parlare con sua moglie Patrizia, ho saputo che, dietro la sua scomparsa improvvisa, c’era un problema che aveva un’origine lontana, e che questa esperienza di malattia aveva provocato in lui un’eterna idiosincrasia con i medici e un motivo d’inquietudine.

            Dopo averlo appreso la sua poesia mi è apparsa più chiara.

            Chiaro il momento della giornata che ricorre più spesso qui: l’alba, che annuncia il mattino:

 

Le cinque: si apre il mattino e primo il merlo,

poi il tordo sassello prima luce e la cincia.

 

L’ultima linea di fuga è per me di domani,

al sole del primo mattino (p.70)

 

amore quando volgevamo lo sguardo

al primo mattino senza fretta. (p.92)

 

Ne parla anche una dedica:

 

A mia sorella Alba (p.90)

 

che in questo contesto potrebbe apparire una fratellanza anche simbolica.

            Elemento fondamentale di questa poetica è il tempo, che è stato scelto molto a proposito per il titolo della raccolta: Tempo d’opera

            Il tempo qui è protagonista:

 

Saresti così gentile, chiedo, saresti così gentile

da ricordarmi la vita, tutto il tempo che ho trascorso, (p.19)

 

e il leccio capirà

che c’è un tempo per tutti e il tempo è caro, (p.21)

 

Tutto adesso, perché giusto

è il tempo. E non c’è tempo,

se non nel restare, mondo. (p.27)

 

All’universo dico: è il tempo del ramo e dell’ultima semina,

qualcosa che verrà, e meno stanco di adesso, (p. 29)

 

Tu prendila come l’idea stessa del tempo […]

Lo spazio è limitato come il tempo. (p.41)

 

Ritornava, se ritornava, dentro il suo tempo,

giovane nel suo tempo, inconsumato, la breve vita, (p.45)

 

Dovevi forse saperlo

e ti è sfuggito tra le mani, un tempo d’opera e le mani

che cercano di dirlo, (p.54)

 

            Il tono è inesorabile, il ritmo sincopato, reso incalzante dalle virgole che si susseguono:

 

Quel bel ricordo, teniamolo quel bel ricordo,

riprenditi la vita, sentivo, tra quante ne abbiamo, (p.104)

 

            Lo stato fisico è quello del battito incontrollato, lo stato d’animo – quello del terrore, timore, tremore, turbamento, ansia, tensione:

 

E la paura che prende, quasi un terrore antico, (p.31)

 

Certe volte cade in mezzo alla stanza un battito incontrollato

del cuore, un vento spazza anche gli ultimi. (p.54)

 

Ma al battito, che dire,

bastava un niente per lui, riaccendersi, (p.55)

 

Non altro che questo: un timore strano,

insolito, strappato alle maglie del giorno.

[…] Ma d’un tratto, proprio nel mezzo

del giorno riecco nel furore adamantino,

tremore andato perso, ritornato in tempo

magari per qualche istante fino a sera. (p.72)

 

Preso, io, da furore, o chiuso e impenetrabile, (p.74)

 

A me bambino questa frase

provocò ansia e da allora

ti guardo per capire, (p.76)

 

Vieni domani e portami

nuove cose da leggere, sai

temperare l’ansia con eleganza. (p.104)

 

Avevamo altre domande,

tremori che ora so tra strade antiche

una via d’uscita, (p.79)

 

un’aria mi cresce dentro,

un motivo, lo sconosciuto ardore, ma

di lato, speciale, come un timore lento

e inafferrabile di parole pronte all’uso. (p.101)

 

            Alberto era amico di Giovanna Sicari. Avevano studiato insieme a Lettere, preparato esami insieme. Erano coetanei, e si erano confessati entrambi di essere poeti, di scrivere. Si dicevano: pensa quando in libreria ci saranno anche i libri nostri, col nostro nome inciso in copertina…

            Roberto Deidier a un certo punto sottolinea questa comunanza, che include anche se stesso, quando scrive “di un incessante addestrarsi alla poesia”, cioè della poesia come esperienza, rigore, coerenza, ragione di vita.

            In questa raccolta c’è sicuramente un’eco dei versi di Giovanna Sicari, soprattutto della sua ultima raccolta, uscita pochi giorni prima che morisse: Epoca immobile. Anche qui, nel titolo, c’è un riferimento preciso al tempo.

 

non tremavamo all’ombra dell’idea, del destino veloce,

della sfida ogni giorno e della passione. Tu lo sapevi?

 

            Proprio nell’ultima poesia della raccolta è presente il tema in comune con Giovanna degli uccelli, simbolo della vita che si perpetua, risorge anche dopo di noi, e l’accettazione del dopo di noi che questa apertura comporta:

 

Che sia la prima aria fresca del mattino

e il canto gioioso degli uccelli, (p.106)

 

            Alberto amava la pittura e amava il verde, inteso come giardino, natura, salvifica in tutte le sue sfumature:

 

Stamattina amavamo il verde

lungo via Nomentana, (p.79)

 

Tutto questo verde della salvezza non è consumato? (p.95)

 

Mi resterebbe un passo di verde antico (p.99)

 

un verde chiaro chiaro

che non mi attira. (p.105)

 

 

            Del verde è la morbidezza, che il poeta inseguiva:

 

Ho sempre inseguito un tempo così, morbido e di pastello.

Erano i platani del Lungotevere, (p.60)

 

Diamoci quel tu morbido.

La fierezza è ancora viva

e porto scarpe morbide. (p.76)

 

Passano, e vita è dedicarsi con amore, piano

che vita nel suo farsi è tenerezza, (p. 86)

 

            Il tema della morbidezza, e così anche quello del verde, si legano istintivamente alla fragilità, alla tenerezza e al sentimento amoroso:

 

Ecco, con te rose, non una volta

e tenerezza […]

Là ti cercavo con l’indice allo stremo,

tra le forme mutevoli del nostro amato verde. (p.88)

 

            Patrizia è sostegno, colei che tiene tutto insieme, e Alberto la vede come la tessitrice di un senso più profondo e salutare dell’esistenza, una paziente e costante Penelope. 

 

Vedo non vedo nel cucito la trama piccolina delle tue mani. (p.75)

 

Prendimi, su, raccogli la mia tenera ombra e l’ombra della preda

tutte le cose viste,

prendile, per me solo,

prendile nel tuo palmo,

tagliale senza paura,

poi servono, ti dirò, a non dimenticare. (p.91)

 

E sopportava, lei, con sopportazione

di madre, non un gesto che potesse tradirla. Lei

tra le antiche rose della città dei primissimi passi. (p.95)

 

tu mi resti accanto a ricucire,

a riprendere in mano il filo nuovo del discorso,

a stare. (p.99)

 

Dimmi tu, fammi da sostegno,

riaprimi nella stanza dopo tutto

il tempo. Ti stringo forte come

a non perdere niente, (p103)

 

Vieni domani e portami

nuove cose da leggere, sai

temperare l’ansia con eleganza. (p.104)

 

            Il dipinto di Enrico Luzzi in copertina: due paia di scarpe maschili che s’inseguono su sfondo giallo senza la persona che le calzi, sono un’immagine viva di quel che deve capitare, con il contributo di tutti quello che restano e che possono diffondere le parole di chi è scomparso, a un poeta. Continuare a camminare, anche senza che il corpo sia vivo, con la propria opera.


Alberto Toni, Tempo d’opera, a cura di Roberto Deidier, Il ramo e la foglia edizioni, Roma 2022.

 

                                                                                                          Annelisa Alleva

                                                                                                          Roma, 14 aprile 2023

mercoledì 29 marzo 2023

«L'ala virata» di Davide Gariti

È appena apparso da peQuod il vero libro d'esordio di Davide Gariti, poeta che seguo da anni nella sua lunga, necessaria maturazione di scrittura. Sono contento di questo evento che segna per lui una tappa importante; sul valore del libro giudicheranno i lettori. Posso solo dire che di quella necessità si fa carico ogni verso. Posto qui la mia prefazione al volume.







Ogni verso di Davide Gariti si assesta su un equilibrio precario, forse pericoloso, come può esserlo l’affacciarsi su un precipizio. Si avverte, leggendo questo autore di lunga e meditata gestazione alla poesia, l’urgenza di mettere a fuoco una diffrazione nell’ordine apparente della realtà, di riconoscere un contrasto che a sua volta implica una mutazione palpabile, un dato sensibile emerso da quel misto di percezione e pensiero che fin dagli esordi con Due minuti all’ombra rappresenta il tracciato di questa scrittura. È il segno negativo, credo, ad attrarre l’osservatore, o comunque il segno che comporta una metamorfosi, forse attesa o altrettanto imprevedibile. Anche il titolo di questo nuovo libro – in effetti il primo a presentarsi più organico, più costruito – parla di questo. L’ala virata è l’immagine di una rotta frastagliata, o di una necessaria, impellente correzione, anche se il paesaggio non cambia nella sua sostanza di scenario dialettico, di rete complessa che il ritmo della poesia tenta di ricondurre a una forma di semplicità. 

La lingua di questi componimenti è lì a testimoniarlo, come la loro forma, essenzialmente breve come l’istante di una sinapsi. «Mi sono trovato il mondo a parlarmi del mondo», recita l’epigrafe che fa da viatico a questa raccolta, e quel mondo si lascia cogliere nei suoi movimenti essenziali, nel variare delle ore, del clima, ma senza agire quella meditatio temporis presente ad altri autori. Tutto (e per tutto si intenda il fenomeno e la reazione del soggetto) si concretizza nell’attimo epifanico in cui la natura o la città si mostrano in un’improvvisa, finanche insolita nudità; ed è allora che ciò che può sembrare pacifico, o assodato, assume una più intima contraddittorietà. In questo senso Gariti si inserisce in un filone primario del nostro Novecento più speculativo, da Sbarbaro a Zanzotto a Fiori, solo per citare alcuni precedenti, ma non sorprende, ampliando l’orizzonte delle letture e degli autori con cui dialoga, trovare quasi in apertura un testo dichiaratamente ispirato a Seamus Heaney. Si tratta in ogni caso di poeti per i quali la visione del panorama naturale o urbano provoca spesso l’insorgere di una spinta metaforica, che sposta su un altro piano di significato la sostanza dell’immagine. Così ciò che viene offerto agli occhi del lettore si rende vivo, mobile e soprattutto dialettico, rispetto a quell’insieme di valori, di nozioni, di riflessioni e investigazioni sui quali il soggetto fonda le proprie consuete coordinate conoscitive; nel giro di pochi versi, se non in un unico verso, si rischia una piccola, ma quanto pregnante e definitiva vertigine esistenziale. La virata ha raggiunto il suo effetto.

Come l’immagine giunge a significare altro, così la metafora può insorgere dal tessuto stesso dei versi, attraverso un processo elementare di personificazione del dato naturale, oppure può lasciarsi agire da una similitudine. Gariti non si risparmia, in questo atteggiamento espressivo, al punto che il processo di traslazione del reale osservato può tranquillamente variare anche all’interno di una stessa poesia e con riferimento a uno stesso soggetto. Si prenda, ad esempio, Stanotte il vento inizia il suo percorso, uno dei testi più densi e riusciti, per accorgerci nell’immediato di quanto il poeta riesca a condensare un’urgenza immaginifica nello spazio di tre brevi strofe. Il protratto apprendistato ha dato i suoi frutti, se consideriamo che questa è, di fatto, la vera, compiuta opera d’esordio di un autore più che quarantenne. E se si paragona questa scelta (forse questo destino) al furore editoriale delle generazioni più giovani, si avverte come Gariti abbia coltivato nel profondo non solo la lezione dei maestri (penso anzitutto a Pasolini e Fortini, a lungo letti e assimilati), ma abbia anche affinato un proprio strumentario, all’insegna di quel sano artigianato che risponde in definitiva all’acquisizione di uno stile, e di una tecnica. Se la poesia, nel suo farsi, è anche necessariamente attesa, ci troviamo di fronte a un autore che proprio dell’attesa ha fatto la sua arma migliore.

Questo poeta si presenta oggi ai lettori che gli auguriamo in un abito espressivo ormai maturo. Il suo è lo sguardo del nostro presente. È da qui che Gariti osserva, indaga, si lascia penetrare dalle sue piccole visioni per restituircele nel fuoco delle sue, delle nostre attenzioni. Il suo andamento così convincente, assertivo, è il risultato di uno scavo (per questa via riconosciamo l’impronta dell’irlandese) nel cuore vivo dell’esperienza, per trarne ogni possibile grumo di significazione e passarlo, a sua volta, al filtro di quello stile duramente conquistato. Come per lo sviluppo di una lastra fotografica prima dell’avvento del digitale, Gariti sa di dover dosare con sapienza ogni liquido, ogni acido affinché l’immagine possa passare dal negativo della sua nascita interiore al positivo della pagina, e che tale passaggio si sia svolto lavorando sul nitore, sulla limpidezza dei contorni, si evince proprio dal grande lavoro di sottrazione a cui ogni singolo verso è stato sottoposto. È un lavoro che si compie nella camera oscura dello scavo. Poeta di necessità e della necessità, Gariti lascia al suo interprete la dimensione breve di una diffrazione discreta tra il come scrive e il cosa scrive. Vale a dire che i suoi temi sono perfettamente inseriti nella lingua che li conduce, dando così più che l’impressione di una certa coerenza e compattezza del dettato.

È proprio quella diffrazione lo spazio concreto, vitale, di questo libro. Il poeta vi introduce il suo lettore, lo rende partecipe dei minimi movimenti tellurici, invitandolo a seguirlo nello sterro che ricongiunge l’esperienza del concreto con quella dell’onirico: «Tutto intorno le ombre / parlano alle pietre / il ramo secco si nasconde, / dirupi di pensieri / ristagnano nel sonno». Dove siamo, in questa poesia, a quale punto della sua descensus ad inferos ci ha portato Gariti, e chi sono le «ombre» che parlano, e perché si sottrae alla vista «il ramo secco»? Il poeta vuole suggerirci che in realtà quelle due esperienze si sono coagulate, fuse in quella stessa della creazione linguistica, nel centro stesso dell’atto poietico. Così l’ala ha compiuto la sua virata; così la lingua ha portato allo scoperto, per converso, il nascondimento di un segno negativo, che resta invece come un indiscusso polo di tensione nell’economia della percezione e degli stati d’animo.

C’è poi, come punto nodale che non poteva rimanere inespresso, il tema amoroso. Anche qui la tradizione offre a Gariti un punto di sostegno, il reagente a pulsioni che non possono essere sedate. Nel fluire di un’espressività trascinante, naturalmente vocativa (c’è il tu dell’altro con cui sostenere il dialogo e le richieste) si riversano infatti tutte le dinamiche del gioco passionale e ogni agonismo implicito nel retaggio sentimentale pare placarsi, ma è, per l’appunto, un effetto della lingua, che induce piuttosto a uno stato di sospensione, di straniato kairòs, prima che tutto esploda in un «frangente»: quello che riporta il soggetto verso le sue consuete osservazioni, verso i suoi prediletti scenari urbani. Così si disegna una fenomenologia dello sguardo e gli stessi elementi del reale congiurano con il poeta nell’allestimento di quello spesso strato di figure, dietro le quali, alla fine, è Gariti stesso a inscenare le sue apparizioni e il suo sottrarsi.

 

 

martedì 28 marzo 2023

«Nero residuo» su «L'estroVerso»

 Da ieri, su «L'EstroVerso», l'intervista a cura di Grazia Calanna su «Nero residuo».

Grazie a tutta la redazione per l'occasione e l'ospitalità, in vista delle prossime presentazioni a Catania.
Con Grazia Calanna, Pietro Russo, Vasco Scandurra.