giovedì 28 settembre 2017
lunedì 25 settembre 2017
mercoledì 6 settembre 2017
AILANTO n. 49 - su Giorgio Ghiotti
Scrive
Biancamaria Frabotta, nella densa prefazione a La città che ti abita di Giorgio Ghiotti, che «sono così pochi i
poeti nativi di Roma nella nostra precarietà di esuli, di emigrati, di
spatriati, che quando ce ne capita uno è meglio non lasciarselo sfuggire». È
vero, la capitale è più una città di poesia che di poeti; per questo, «quando
ce ne capita uno», non vengono a mancare attenzione e curiosità, e quasi mai ne
restiamo scontenti. È anche il caso di un talento precocissimo come quello di
Ghiotti, che a ventitré anni (l’età in cui un altro enfant prodige, Valerio Magrelli, esordiva con Ora serrata retinae) congeda la sua seconda opera in versi, dopo Estinzione dell’uomo bambino del 2015.
Una distanza ravvicinatissima tra le due prove suggerisce una certa contiguità
tematica ed espressiva, puntualmente colta nelle osservazioni della prefatrice,
a cui rimando. È come se, di tappa in tappa, Ghiotti stia circoscrivendo, nella
forma della poesia, un universo affettivo, amicale, domestico, quello a lui più
prossimo, cercando di attingervi quell’essenzialità in cui far confluire
necessità comuni, piccole verità condivise, condotte alla disamina del tempo.
Proprio «cuore» e «tempo», quest’ultima nelle sue svariate declinazioni, sono i
termini che più ricorrono in queste nuove poesie.
«Certo,
il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà.
Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto». Così Manzoni,
nell’ottavo capitolo del suo romanzo. E veniamo al centro della questione che
fa da filo conduttore ai testi di Ghiotti. Non so se avesse presente questa
frase, in cui l’affettività si misura con la temporalità, fra passato e futuro:
la poesia non conosce presente, del resto. Perché «cuore» e «tempo», in questo
libro, intrattengono un rapporto dialettico. Si affrontano, si scontrano,
prendono coscienza l’uno dell’altro. E lo fanno attraverso un susseguirsi
scenico, di sequenza in sequenza, come se fossimo chiamati ad assistere a delle
brevi pièces, che i personaggi di una
vita, per quanto esigua, vengono a recitare su un palcoscenico di
micronarrazioni. Ma è davvero esigua una vita di ventitré anni, quando il mondo
affettivo che vi si dispiega appare così inevitabilmente ricco, agito da grandi
dolori come da minimi sussulti, e soprattutto da continue scoperte? In un
panorama di giovani e dottissimi versificatori, che forzano la scrittura verso
una maturità fittizia, ancora lontana dal compiersi, Ghiotti è l’ultimo poeta
bambino in grado di stupirsi della vita, e di raccontare il proprio stupore con
l’esattezza della grazia. In filigrana ritrovo qualcosa di Penna, le sue
avversative, il suo fraseggio, ma senza epigonismo: in filigrana, appunto, come
a dimostrare l’esercizio di una lenta assimilazione. E la ricerca di varchi del
primissimo Montale.
Anche
Ghiotti è un lettore dotto, prima che poeta e narratore. Il miglior Novecento
si raccoglie dietro le sue parole e sarebbe poco utile provare a tirar giù altri
nomi, che stranamente (come accade spesso alla poesia romana) non
apparterrebbero neppure agli immediati dintorni dell’urbe. Quando si mettono
cuore e tempo in una stessa poesia, si muovono ampie tradizioni, e alla fine,
tra i due, nessuno vince, perché non esiste che un «sentimento
del tempo». Ma per Ghiotti questo non s’identifica tanto nella «tragedia
dell’infanzia» che pure Frabotta rievoca in apertura, quanto nel perdurare di
un’adolescenza che brucia e brucia, come vuole il suo etimo (adolesco) portandoci verso nuove forme e
nuove acquisizioni. E lasciando, nella cenere, la traccia di quel che siamo
stati. Ha ragione Ghiotti: c’è un «lordo» e c’è un «netto», nei nostri bilanci
affettivi, un tempo pensato e un tempo vissuto, qualcosa che si perde, e altro
che si salva per sempre.
Giorgio Ghiotti, La città che ti abita, prefazione di Biancamaria Frabotta, Empirìa
2017, e. 12.00.
Vorrei
trattenerli per intero, ora, i ponti
interminabili
di agosto, le sagome indistinte
di
urla fuori dalle scuole, gli archi
spalancati
sulle piazze, il riposo dei cortili
per
lui che mai del tempo ha fatto scorta
e
quello speso dietro a un farsi e disfarsi
di
giorni chiamarlo per nome, ritrovare
nel
suo farmi battaglia d’allora
lo
spiraglio oltre il silenzio di adesso.
lunedì 4 settembre 2017
AILANTO n. 48 - Su Raffaele Niro
Non
so se Raffaele Niro, nel congedare la sua raccolta più recente, intitolata L’attesa del padre, avesse presente un
aneddoto ungarettiano, che mi sembra di ritrovare in filigrana ad apertura di
libro. Ogni inizio d’anno, ovunque si trovasse, l’autore dell’Allegria e del Dolore prendeva carta e penna e si costringeva alla scrittura. Si
trattava di una specie di rito magico, di un esorcismo nei confronti
dell’aridità creativa: il primo giorno dell’anno diveniva una sintesi simbolica
dell’anno intero, così che trascorrerlo senza aver scritto una poesia avrebbe
significato un raccolto in versi davvero magro. In questa sua «attesa», che
leggo in senso soggettivo più che oggettivo per il carico di affetto che
trasuda (è il padre che attende sia le nascite imminenti sia i loro sviluppi in
termini emotivi e di crescita), Niro, nel dedicare alla sua figlia minore la
suite d’ingresso, scrive: «la solitudine a gennaio / aiuta a togliere l’erba
cattiva / dal campo dell’immaginazione / per favorire la messa a dimora del
futuro». È un’allegoria della vita morale, ma anche della poesia. Al volgere
dell’anno – tempo inevitabile di bilanci, anche esistenziali - si rende
necessario disinfestare il campo, liberare l’immaginazione dalle zavorre del
vissuto, quando questo non sa farsi materia di poesia. Si deve entrare in un
tempo interiore, agostiniano: il tempo della riflessione, dell’introspezione.
La solitudine è la condizione che lo consente, all’epoca di Agostino come nella
nostra, anche se gli spazi sono resi più difficili. È anche il tempo di
riconoscersi e di misurarsi in una nuova identità: quella paterna, appunto.
Allora
non sorprende che le epigrafi che fanno da viatico a questa raccolta
appartengano proprio a Ungaretti e a Octavio Paz, ovvero a due poeti girovaghi
per antonomasia, per quanto diversi tra loro. Con un sostanziale distinguo,
però: la geografia di Raffaele Niro è una dimensione tutta interna, affettiva. Quanto
si narra nei suoi versi risponde a una condizione sentimentale. Mentre quei due
maestri inseguono l’uno i deserti della modernità e l’altro la sua urbanità
cangiante, Niro sceglie la strada di un possibile spostamento di valori, e si
arrocca nell’altalena incessante di astratto e concreto, aprendo di fatto un
varco («una porta», scrive Paz) al pensiero, nel pensiero dell’attesa. Del
resto, è uno dei modi possibili di declinare il proprio girovagare: «tra le
dita si è incantato il tempo», «il tempo che si crede d’attesa / esce da un
ricordo col profumo di futuro», leggiamo in poesia
d’attesa. Allo spazio, questo poeta ha prontamente sostituito il tempo. Non
è una strategia certo nuova, nella storia della tradizione lirica, della nostra
in particolare: ma Niro aggiunge, di suo, questo proiettarsi nel futuro, questo
fare della memoria non solo uno straordinario vettore affettivo, come ci
insegnava Leopardi, ma soprattutto un cortocircuito per cui il passato si
lancia in avanti. È un’altra, neppure troppo sotterranea allegoria
generazionale, con tutto il carico di responsabilità che possiamo supporre:
«perché l’attesa di un figlio / non si conclude / con la sua venuta al mondo».
Raffaele Niro, L’attesa del padre,
Transeuropa 2016, e. 11,90.
le mani del figlio
le
mani di mio figlio
aprono
l’asola del mattino
con
la disinvoltura della luce
è
lui che cuce l’alba
trasformando
materia scialba
in
un pezzo di universo
che
inizia qualcosa di possibile
martedì 15 agosto 2017
A proposito del Libro degli amici
Ciò
che a prima vista appare come una semplice raccolta di ricordi, una serie di
rievocazioni, non tarda a rivelarsi come un oggetto complesso e difficile. Più
ci si addentra nelle pagine di questo Libro
degli amici, edito da Neri Pozza, più si colgono il disegno, la struttura
profonda che lo animano. Il genere a cui appartiene, quello della
memorialistica, lo comprende fino a un certo punto; non si tratta, in ogni
caso, di un genere principe delle nostre lettere, anche se vanta esempi più che
illustri, soprattutto – questo è interessante – nel secolo dei lumi. Penso a
Goldoni, a Vico, a Casanova, ad Alfieri, solo per citarne qualcuno tra i più
evidenti.
Dunque,
nella nostra tradizione dev’esserci stato – e forse c’è ancora - un legame tra ricordo e ragione, anche se
l’autobiografia, o la biografia di per sé, spesso simulano o dissimulano una
certa finzionalità, ovvero una propensione al racconto. Del resto, come ci
insegna Leopardi, fingere, che deriva
da fictio, vuol dire mettere in moto
un racconto del pensiero, nel
pensiero: io nel pensier mi fingo.
Sono
questioni che ci introducono al primo dei quattro termini che ci vengono
incontro dal Libro degli amici e che
potremmo così individuare: ritratto, tempo, memoria, cornice.
Partiamo dal primo. Quella del ritratto è una lunga storia che tutti
conosciamo, tra arte e letteratura, ma quello su cui non si riflette mai
abbastanza, anche di fronte al più realistico dei ritratti o a una fotografia,
è ciò che l’autore intende illuminare attraverso il suo dosaggio della luce. Un
ritratto è sempre una prospettiva, soprattutto se tra il ritrattista e il suo
soggetto s’insinua un latro concetto cardine, su cui, invece, da sempre si è
riflettuto: quel gemello dell’amore che risponde all’amicizia. Questo è
davvero, in ogni senso possibile, Il
libro degli amici. Lo si avverte dalla confidenza, che qui non è questione
di tono, quanto di modi della descrizione. C’è, dietro questi ritratti, un
collante comune, una dimensione sola e unica: Roma. Leopardi annotava nel suo
zibaldone che «In un luogo piccolo vi sono partiti, amicizia non v’è. Amicizia non può essere che in città grandi,
o pur fra persone lontane» (8 luglio 1829). E in precedenza aveva sottolineato
che l’amicizia è «fra uguali» (3 novembre 1821), e che la differenza di età e
di esperienza non sono elementi a sfavore, al contrario: «È oggidì meno
verisimile l’amicizia fra due giovani che fra un giovane e un uomo di
sentimento già disingannato del mondo e disperato della sua propria felicità»
(20 gennaio 1820). La ritrattistica di Pecora si muove esattamente su queste
linee, e nella maggior parte dei ritratti questa è stata la realtà delle cose.
Dei dieci ritratti maggiori di questo libro, solo i rapporti con Dario Bellezza
e con Amelia Rosselli possono considerarsi tra coetanei, e quello con Bellezza
è stato tutt’altro che facile.
Uno
studioso che scriva di un autore mirerà, per quanto possibile, al massimo di
obiettività, ma per un autore che parli di un altro autore il tasso di
soggettività è sempre più alto. Si finisce inevitabilmente per dire qualcosa di
sé. «Il ritratto appartiene al ritrattista», avverte Pecora fin da subito, il
che vuol dire che i suoi sono anche degli autoritratti per interposta persona,
delle proiezioni, delle rifrazioni, da parte di chi, nell’amicizia, scorge
soprattutto l’amore: «Spesso si è trattato di un vero innamoramento. [… ] Chiamo
amici quelli che nomino ed evoco in queste pagine. Per lunghi o per brevi
periodi di tempo ci siamo parlati, accompagnati, cercati, trovati».
Tempo. È un tempo lineare, biblico, quello di
Pecora. Sembrerebbe non tornare più indietro: questa società culturale qui
riunita, tutta insieme, sembra muoversi come dietro un velo. Sembra,
appunto. Pecora sa che tra il tempo
lineare e quello ciclico della natura e del mito sta un altro tempo: l’infinito
che torna nel finito. Un evento, nella nostra vita votata alla finitudine, può
ripresentarsi infinite volte. È l’ipotesi che Nietzsche, autore carissimo a
Pecora, definiva come l’«eterno ritorno dell’uguale». Se provo a spostare la
metafora dall’ambito filosofico a quello letterario, chiedendo aiuto a un altro
autore caro a Pecora, ma distante anni luce da lui, questo tempo della
rievocazione si chiarisce ulteriormente. In chiusura dei suoi suggestivi,
straordinari saggi su Dante, Borges, richiamando il canto di Ugolino e il
celebre verso «poscia, più che il dolor, poté il digiuno» (su cui ancora dopo
sette secoli si affannano gli esegeti), afferma che l’ambiguità di quel verso
(Ugolino ha mangiato o no i suoi figli?) è in verità un falso problema, e che
proprio nella sospensione di quell’ambiguità Dante ha voluto consegnarci la
figura del conte della Gherardesca; il quale, a ogni nostra lettura, torna
sulla scena a recitare per noi la propria tragedia. Come Paolo e Francesca,
come gli altri personaggi: riapriamo le loro pagine, ed essi si rianimano per
noi.
Dunque ciò
che caratterizza un testo letterario da tutti gli altri sarebbe proprio ciò che
i teorici chiamano il suo ri-uso; e il ri-uso rende il tempo finalmente
reversibile, il tempo della cosiddetta realtà e quello percepito; il tempo
dell’esperienza e il tempo interiore di Agostino e poi di Petrarca. Allora si
spiega che l’attenzione del ritrattista non colga tanto gli aspetti fisici, a
cui Pecora è davvero poco o per nulla interessato (tranne di fronte alla
bellezza conclamata di Anna Amati e di Elsa de’ Giorgi); lo appassionano di più
i caratteri, gli umori, le psicologie. E, naturalmente, gli ambienti. Tutti i
grandi ritratti si muovono “in situazione”, non ci sono mai primi piani, ma
scene che si svolgono all’aperto o nel chiuso domestico.
Memoria. È finanche ovvio scomodare Proust.
Perché Il libro degli amici è anche
una «ricerca del tempo perduto». Non del tempo perso, che non si rende mai
reversibile, ma di quello trascorso nell’affetto: questo ritorna sempre, in
queste pagine. Perché la memoria è un potentissimo filtro affettivo. Anche
quando siamo noi a provocarla, c’è sempre una forte componente involontaria. La
memoria pesca dove vuole lei, basta inzuppare una madeleine ed ecco che la ricerca del tempo perduto prende avvio e
la nostra vita – o meglio, il ricordo della nostra vita – prende forma nella
nostra mente e si sostituisce al presente, lo sospende.
Siamo
davvero noi i registi di tutto questo, come vorrebbe Pecora? Sì, ma fino a un
certo punto. Forse, più che i registi, siamo i provocatori, o i provocati.
Alcuni di questi ritratti nascono da occasioni, e l’occasione è, da sempre, un
formidabile vettore espressivo, per Pecora. Lo ha ricordato di recente Roberto
Galaverni sul «Corriere della sera», citando quest’autore come «capace di
notevoli poesie d’occasione». L’occasione provoca la memoria. Accade per
Wilcock, il cui ritratto si lega a un lontano convegno di studi; per Francesca
Sanvitale, il cui ritratto fu scritto per la prestigiosa rivista «Belfagor»,
come un precedente ritratto di Penna.
Pecora
torna su quelle pagine, le riscrive, le aggiorna. Le consegna all’unità del
libro. Così veniamo all’ultimo termine, cornice.
La
struttura del Libro degli amici è chiara.
Una breve premessa, in corsivo, che dà voce all’autore piuttosto che al
narratore; poi un ampio capitolo introduttivo, dove scorrono molti personaggi
tra arte, musica, letteratura, scienza. Seguono i dieci ritratti maggiori.
Ancora una brevissima apparizione dell’autore in corsivo, quindi un altro ampio
capitolo conclusivo, assai disincantato. È una vera costruzione a cornice, che
incastona le dieci narrazioni più ampie in un ambiente ancora più ampio. Solo
che, al contrario di quanto accade nella nostra tradizione di cornici (pensiamo
a Boccaccio o a Basile), abbiamo qui un unico narratore interno, un po’ come la
Sherazade delle Mille e una notte.
Eppure, come i narratori del Decameron,
Pecora ha scritto da una condizione di isolamento, quasi forzato da una
malattia di stagione. Gli ingredienti della struttura a cornice sembrano
esserci tutti e come in ogni opera incorniciata, a chiusura del libro si
avverte l’esigenza di proseguire: i racconti sono finiti ma se ne vorrebbero
ancora, tanti altri ancora. Perché di quel mondo, spazzato via dalla caducità
come dalla rivoluzione digitale, che ha radicalmente mutato anche la natura dei
nostri rapporti e la nostra capacità di averne e soprattutto di mantenerne,
sentiamo in chi è rimasto sospeso tra vecchio e nuovo una potente malinconia.
Pur avvertendone i limiti, che solo un uguale poteva
puntualmente registrare sottraendo questi personaggi al loro stesso mito, per
farne di nuovo umani in carne e ossa; pur avvertendo questi limiti, quel mondo
si attesta come qualcosa di unico, che solo la forza della letteratura torna
oggi a restituirci attraverso le parole di Elio Pecora. Allora ricordare non è
più soltanto una necessità,ma un imperativo, in «troppi anni senza lasciare
tracce», leggiamo, in chiusura, tra amarezza e gratitudine.
mercoledì 9 agosto 2017
lunedì 7 agosto 2017
AILANTO n. 47 - Su Maria Borio
Non
c’era bisogno che Maria Borio, nel licenziare con L’altro limite la sua prima prova organica, scrivesse nella nota
finale che queste scritture fanno parte di un più ampio progetto: l’idea della
costruzione si avverte fin dalle prime pagine, nel disegno del libro si intuiscono
le tracce di una sinopia, di un vasto affresco mobile, però, che somiglia più a
un work in progress. Del resto, ogni progetto che non risponda a tale
movimento, in letteratura è destinato a sconfessarsi. Così quella che potrebbe
sembrare una plaquette,
un’anticipazione di qualcosa che deve ancora compiersi, si mostra in realtà con
la tenuta di un libro, per quanto aperto, sospeso su un’incessante tensione
proiettiva. C’è, quasi sempre, uno «schermo», o un susseguirsi di scene come dietro
una quinta teatrale. L’autrice ci avverte che quello schermo è il «grande
vetro» dietro cui sintetizza la reificazione del «mondo digitale», e questa è
la vera novità: Maria Borio congeda il mondo della poesia analogica, per
restare nella metafora tecnologica, che appare come relegato dietro il velo di
quello schermo, e da lì proietta, o si lascia proiettare, le nuove immagini.
Insomma, la scrittura si è fatta digitale non perché è mutato il suo supporto,
ma perché quella è la sua nuova, ancora indefinibile sostanza.
(Non
so se “reificazione” sia il termine esatto. Presuppone ancora una visione dalla
parte di una realtà analogica, una capacità critica che invece il poeta affida
ora alla melmosità delle sue parole, o di cui, probabilmente, non vuole essere
più consapevole. Questa mi sembra la prima opera davvero digitale, in poesia,
affacciata su un presente impietoso).
Non
sorprende, allora, anche una certa metatestualità, un riflettere interno più
sui modi che sulle ragioni della poesia. Ad esempio la questione della forma,
che passa dall’ambito della realtà a quello della pagina, come problema che non
si risolve in un ritorno alla Gestalt,
perché digitale vuol dire anche virtuale, e ogni processo poietico finisce per
coincidere con se stesso, in una crescente autoreferenzialità. Si mostra per
ciò che è, un continuo decostruire e ricostruire il mondo, a patto di
riconoscere, appunto, che quella realtà non è fatta solo di esperienza; o
meglio, il concetto stesso di esperienza si è inevitabilmente corroso e
ampliato, e ciò che viene dallo «schermo» è altrettanto opprimente e concreto
di quanto è ancora possibile sperimentare attraverso gli altri sensi, che non
siano la vista e l’udito. Spesso in questi versi, che campiscono come cellule
isolate in un potente e inarrestabile fluire analogico, e che non riesco più a
chiamare poesie nel significato tradizionale, perché la costruzione nega la
forma, come a circuirla, a blandirla per poi disfarsene, non senza una certa
crudeltà, è proprio la scrittura, nel senso più ampio e moderno, a dominare.
Non potrebbe essere altrimenti, perché in questo primo libro, o tappa,
necessariamente doveva agire la foga della ricerca e della definizione. E con
il problema della forma doveva altrettanto porsi quello del soggetto, forse qui
inteso più come prospettiva, come luogo da cui osservare e raccontare,
piuttosto che come entità lirica. E dunque, come il primo uomo che si affacci
su questa landa ancora indecifrabile, il poeta va ri-nominando le «cose». Maria
sa bene che in poesia questo termine non significa nulla, che spesso è un
espediente, avrebbe detto Verlaine, di bassa cucina. Ma proprio esasperandolo
ne fa il veicolo di una semantica nuova, di una lingua che si sta plasmando, ed
è ancora di là da venire.
Maria Borio, L’altro limite, LietoColle 2017, e. 13.
Sembra
quasi che tu non abbia vissuto
tutti
gli anni sconnessi
dopo
la rivoluzione, o l’ipocrisia
ingenua
di invecchiare
- forse
questa gabbia,
la
sicurezza, o un pezzo
di
vita come carne comprata.
Se sapessi
quale filo invisibile,
quale
corda tesa e bugiarda…
anch’io
sotto l’alluvione
sotto
al peso incalcolabile?
anch’io
vorrei smettere di dirmi
io.
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