Alberto
Toni è un poeta che non ha mai smesso di confrontarsi con la tradizione, e in
particolare con quella a lui più prossima, la grande tradizione poetica del
secolo scorso: quello in cui è nato e si è formato. Ma la tradizione non è mai
stata, per lui, la superficie liscia di uno specchio in cui osservarsi, anche
nel termometro delle passioni e degli umori, e neppure un polo di tensione. Ci
sono autori per i quali volgere lo sguardo al passato, non importa quanto
lontano, rappresenta un gesto di sfida, o la necessità di ribadire una presa di
distanza. Così come ve ne sono altri che senza quel passato perderebbero il
nerbo delle loro polemiche, delle loro messe a punto: un canone, lo sappiamo,
coincide solo in minima parte con una costellazione, ovvero con i maestri e
compagni di strada che ci si è scelti. Toni, piuttosto, nel Novecento dei poeti
sembra sentirsi perfettamente a suo agio: quelle mura, per quanto dolenti,
drammatiche, poco rassicuranti, sono la sua dimensione ideale, circoscrivono il
perimetro di quella «stanza tutta per sé» dove ritrovare e riaffermare, ogni
volta, la sua identità.
Si
può leggere in questa prospettiva anche la sua ultima fatica, sintomaticamente
intitolata Il dolore. Anche qui il
lettore ritrova alcuni parametri fissi della scrittura di Toni: luoghi, viaggi,
incontri che delimitano un mondo di esperienze, con un occhio rivolto alla
realtà e l’altro alla memoria. Ma rispetto alle prove precedenti, ed entrando
nel pieno della sua maturità, il poeta in questo libro lascia alcuni
inevitabili e chiarissimi senhals in
direzione di un passato che continua a rappresentare, per lui, la sola, vera
eredità. A partire dal titolo, preso di sana pianta come un omaggio esibito - e
dunque senza sfrontatezza, ma con l’aria di chi può sentirsi autorizzato a
farlo – da uno dei grandi libri del suo Novecento, il libro che Ungaretti
scrisse nel pianto per un lutto imprevisto e insanabile. Sfogliando Il dolore ci s’imbatte ancora in un
altro senhal: l’«upupa», uno degli
emblemi montaliani; ma a Montale risale anche la prima allegoria a cui Toni si
ispira, quella della «trota sannita», davvero una «sorella» dell’«anguilla». E
il Percorso ospedaliero che intitola
la quinta sezione rinvia a un altro illustre precedente, quella Serie ospedaliera che Amelia Rosselli
aveva congedato dopo le Variazioni
belliche. E sotto il travestimento dell’anagramma ritroviamo perfino
Caproni, in un testo in cui si rievocano pomeriggi in biblioteca; così come in
diverse chiuse, dal tratto più musicale, si avverte lo spirito di un altro
degli auctores di questa
costellazione, Sandro Penna.
Siamo
davanti al compiacimento della citazione? Non credo, perché il gioco, volente o
nolente, risulta assai scoperto, fin troppo per non indurci a credere a una
necessità autentica. Non è un caso che queste poesie siano popolate di figure e
fantasmi di padri e di madri, e che la poesia che dà il titolo all’intera
raccolta sia dedicata proprio alla madre. È la madre che dà la lingua, ed è la
lingua che Toni sente di aver preso in consegna, per poterla rimodellare,
portare avanti nel tempo di una storia dove, forse, non si vorrebbe più posto
per i poeti. Che sono e restano le creature più fanciullesche del nostro
presente, e per questo le più «antiche». È questo l’aggettivo che più ricorre in
questo nuovo lavoro di Toni e che ci pone di fronte a una coerenza davvero
rara: quella a cui possiamo dare il nome di fedeltà.
Alberto Toni, Il dolore, Samuele Editore, e. 12
Accogliamoli
i padri, i fondatori,
la
loro giovane dismisura, la risorsa,
se
libero è il disegno della storia.
Ma
fugge la staffetta allo stacco dei nuovi,
si
rinserra, si adunca in rivoli di terra,
dai
dialetti, ai polsi proni dell’indifferenza
o
soltanto per noia malcelata.
Sapessero
che stare è riandare una volta,
più
volte nell’addio
e
dentro il dolore.
Non
stanchi, né offesi
dalle
umili origini.
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