Usciamo?
Usciamo. Cominciava così una famosa poesia di Palazzeschi. Mi è tornata in
mente leggendo il nuovo libro di Anna Cascella Luciani, Gli amori terreni, che raccoglie i versi scritti dal 2009 al 2012.
Perché attraversare i testi di quest’autrice è come iniziare una passeggiata in
una geografia ampia, aerea, dove il ricordo filtra lo spazio per consegnarlo
alla dimensione della lontananza, e la scrittura torna veloce a riprenderlo per
riconsegnarlo a noi che leggiamo, e leggendo ricordiamo. Dall’Adriatico al
Tirreno, dall’Abruzzo dell’infanzia e dell’adolescenza alla Roma dei poeti, la
vita di Anna è stata un impetuoso inseguirsi della memoria verso un centro
nevralgico, invisibile, ineffabile. Il suo ritmo sempre teso, ora ironico, ora
suasivo, ora concitato e nervoso, è un vortice che ruota intorno a quel centro,
e mentre cerca di afferrarlo lo porta inevitabilmente sempre più lontano, fino
a cristallizzarlo nella sua inevitabile assenza.
Ho
sempre creduto che fosse il tempo, il grande antagonista di queste poesie, quel
tempo che prende forma e si sostanzia nella variazione ritmica, nelle
improvvise sospensioni, nei trattini che aprono voragini, piccoli buchi neri in
cui sentiamo inesorabilmente avviarsi anche una parte del nostro vissuto;
tragedie di un istante, epifanie di cui appena ci rendiamo conto, ma
sufficienti a rinviarci a un altrove crudele, dove le nostre esperienze
appaiono come dietro la superficie di uno specchio, ormai inafferrabili. Così,
spesso, sotto la sua grazia apparente, ho cercato di accostarmi alla scrittura
di Anna, per avvertirne piuttosto tutta la forza tellurica (tornano Ade e
Persefone, qui, e gli assolati paesaggi della memoria si colorano di una tinta
un po’ fosca, che conduce il pensiero verso l’irreparabilità del futuro). Come
per Penna - poeta spesso citato per lei e da lei -, sotto il cui passo leggero
si avverte sempre il costo autentico della felicità.
C’è
un’insolita velocità che ci porta, come se fossimo risucchiati in un gorgo,
verso la fine di ogni poesia. E ogni trattino è come uno sbalzo improvviso e
imprevisto, che ci giunge proprio quando pensavamo di essere posati su un
sedile comodo, un sasso sotto la ruota, l’impressione ogni volta di forare e di
doversi arrendere alla sosta forzata. E invece con quest’ultimo libro, proprio
come la splendida immagine di copertina di Ettore Spalletti, mi accorgo che di
tappa in tappa Cascella Luciani ha disegnato un unico grande ponte tra le
sponde della sua vita, e della nostra. Sotto la cui unica, immensa arcata, quel
grumo di assenza appare piccolo, piccolissimo, consegnato, più che a un
altrove, a un altrui che ci riguarda sempre meno. E che, anzi, quel negativo ha
nutrito la sola, vera presenza di cui questo poeta ha scelto di appropriarsi
anche nel nome: quella materna. Amori, amicizie, città, paesaggi e
micropaesaggi scorrono con la consueta foga, a quel passo di danza che da
sempre viene riconosciuto ad Anna. Ma qui la coreografia è diversa: molti sono
i pas-de-deux, le dediche e le apparizioni in scena, che corroborano la densità
di un’esistenza, aggiungono materia, solidità, proprio quando le circostanze
lavorano a sottrarre, a delimitare, a escludere. Così un doppio movimento
scandisce questi ultimi versi, lineare e circolare insieme, ampio eppure
preciso: quello della riconquista. Narrazione di un’identità che finalmente
sembra ricomporsi proprio quando il corpo afferma il contrario e congiura al dissolvi, Gli amori terreni sono il diario puntuale di un viaggio ostinato e
coraggioso.
Anna Cascella Luciani, Gli amori terreni 2009-2012, con una Nota di Marco Corsi, Brescia,
L’Obliquo, s.i.p.
vincere
l’oriente – piccola –
è il
costo del tramonto
alla
roulette dei mondi –
nessun
colpo deviato ha
l’universo
– nell’orbita
degli
astri – e se noi siamo
fatti
di calcio – ferro –
come
le centrali nucleari
delle
stelle – in atomi
ritornati
a quei lucenti
o
spenti spazi siderali –
sarà
il moto perenne a dare
il
colpo – a quel che resta
di
noi dormiente – nelle culle
- stellari –
Nessun commento:
Posta un commento