Posto una bella recensione di Aldo Gerbino, apparsa oggi, 21 novembre sulla «Gazzetta del Sud».
venerdì 21 novembre 2014
domenica 16 novembre 2014
Anna Cascella Luciani, I tre tempi (2014)
© Rino Bianchi, 2010 |
I
per me morire ancora -
prima della morte -
non avrei mai -
immaginato per me -
una tale sorte - una tale
vecchiaia abbandonata -
che io fossi malata
a me era chiaro -
ma lasciando la mia
via a Roma - no
non pensavo di averne
solo disagio - solo
sofferenza - si stringe
addosso il cappio
della mercanzia del noto
orrore - dolore
deriva - spargimento -
(nel film di Magni, Emilia
sposa di Scipione -
in dialetto purissimo
la si sente dire "salvamo armeno
li nomi de li superstiti" -
e se ne va in campagna
- a Literno - "porto
la pupa" - da adulta
ricordata madre
dei Gracchi - tribuni
della plebe - assassinati)
II
la testa di uno
decollato ho sognato
dentro uno scatolone -
un trasloco traslato -
una sovraimpressione -
era la testa di Cristo
non di San Giovanni
e della testa di Cristo
tagliata non s'è sentito
mai - pure era Cristo
- uno dei tanti -
un uomo una donna
numerose infanzie
e le vecchiaie - nei campi
- profughi dalla Siria
ultimamente - e rifugiati
in Giordania e altrove
sparsi - e i bruciati vivi
presi a calci a pugni
fratturati - gettati
dentro un forno -
una fornace - (in un blog
l'altro giorno - sul Web
un uomo pareva dire
"può ancora quanto
ha scritto Franco Fortini
servire a capire
come capire questi
orribili tempi - o come
agire?")
III
Non so - non saprei dire
ma ricordo dei suoi versi
alcuni inviti "O dèi
inesistenti, proteggete
l'idillio, vi prego" -
e l'infera - costante
slabbratura - l'immedicabile
faglia tra la gioia
che anch'egli avrebbe
voluto intera e la pena
continuamente chiara
"e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo" -
per Franco Fortini, a novembre, nel 2014
venerdì 14 novembre 2014
Una lettera di Gabriella Sica a Roberto Deidier (a proposito di Solstizio)
Caro
Roberto,
per
cominciare ti ringrazio per la bella serata che abbiamo passato insieme con gli
amici dopo la presentazione di Solstizio,
il 10 ottobre, ma meglio sarebbe dire dopo la lettura delle poesie dal tuo
nuovo, e immagino, sospirato libro, che ci ha sorpreso un po’ tutti, anche se esce
a distanza di ben dodici anni dal tuo ultimo. Non è stato facile raggiungerti.
Un’ora e mezzo c’è voluta. Uno dei tanti strangolamenti del traffico a Roma. Sono tuoi questi
due versi: “E nell’impero del sole cadente / La capitale è di nuovo assediata”.
E poi: “Roma è stanca”. C’era la gran pressione della nuova complicata circolazione
a ridosso dei Fori imperiali e poi via dei Cerchi chiusa per un gran comizio
politico di tre giorni al Circo Massimo. Non devo essere stata l’unica ad
arrivare in ritardo e a voler venire nonostante tutto per festeggiarti. E ce
l’abbiamo fatta in molti, e in particolare Francesca (Benedetti) che leggeva alla
grande, come suo solito (e insieme a lei Verdastro), gareggiando per di più con
Beppe Grillo, che fuori urlava. La politica non ci ha sopraffatto, come
abitualmente fa. E dopo Roma, che tanto ci fa patire, si dispiegava finalmente in
tutta la sua maestà e il suo splendore immutabile, lì nella grande magnifica piazza
di S. Maria della Consolazione, in un dolce clima ancora estivo tra le ombre
silenziose della sera, in quel ristorantino sotto il più augusto dei colli, il Campidoglio,
sul lato di quello che ancora Petrarca chiamava “monte Tarpeio”, lì dove c’era
la parete rocciosa della rupe Tarpea, diventato poi Monte Caprino, luogo di pascolo
per capre. Ci andavo nei miei anni
trasteverini in quella trattoria popolare frequentata da ragazzi e operai dei
dintorni, e che vi ho temerariamente segnalato, pur di sfuggire alla morsa
grillina.
Quanto
tempo è passato, caro Roberto, da quando una mattina sei venuto alla “Sapienza”
a trovarmi, e smarrito mi chiedevi luce sulla strada della tua poesia e,
chissà, anche il modo per iniziare un’eventuale gavetta universitaria. Ti
spinsi a cercare Amelia Rosselli ed Elio Pecora, certa che avrebbe fatto loro piacere
parlare con un giovane promettente e garbato. E così il tuo cerchio si era
chiuso o aperto secondo gli opposti criteri solstiziali che sono ora così tanto
tuoi. Nel frattempo sarà passata metà della tua vita, ora che sei prossimo ai
tuoi cinquanta, nel punto alto della tua bella maturità di poeta, per di più coronata,
come mi dici, dalla promozione a professore ordinario nell’università di Enna,
chiamata, guarda il caso o il solito cerchio solstiziale, Università Kore, la Proserpina
greca a cui hai dedicato un tuo libro che vorrei tanto leggere. Certo la tua
poesia è emblema dell’inabissamento del poeta moderno nel buio, della discesa ad inferos e perfino la tua vita ne è
diventata una rappresentazione plastica, con questa tua discesa, un andare giù, sempre più in giù, prima da
Roma, “la città perduta”, a Palermo, e ora da Palermo andrai a Enna, per
costrizione e ormai credo per scelta, dunque da Roma alla Sicilia, nel profondo
Sud, in un percorso inverso a quello consueto perché il tuo è anche un percorso
da poeta. Abbiamo goduto di spiccioli preziosi di estate ritardata, ti siamo
stati intorno a parlare con te e di te, anche se a un certo punto quella
calamita che è Pier Paolo Pasolini ci ha attirato nella vertigine di una
conversazione sul suo destino di morte, sul tanto e inutile fare di molti
intorno al suo corpo che ancora recalcitra e non è ancora lasciato in pace, troppo
spesso pretesto e trampolino per avventure tutte personali. Ma si sa quanto
l’Italia bastoni i suoi figli, quanto i poeti siano poco amati, forse più a
Roma che altrove. Ne sapeva qualche cosa Amelia Rosselli, la mente un po’
sconquassata. “Questo povero tempo uccide i poeti!”, diceva teatrale Dario
Bellezza, con il suo cappotto nero e il cappellaccio andando per i vicoli di
Trastevere dove lo incontravo, a metà rondine e a metà corvo, forse soltanto
candido albatros.
Ma
veniamo dunque al tuo libro che ho tenuto a lungo con me in questi giorni, l’ho
letto un po’ ogni sera, centellinandolo per inseguire con curiosità e agio il
tuo segreto, la peculiarità dei tuoi versi che sono chiari all’apparenza ma
hanno il fondo oscuro, non per mescolanza ma per accurata stratificazione, a
capire non tanto quello che dici ma come lo dici e come lo vuoi dire, a capire
insomma il tuo atto di distinzione, la strategia che non ci fai vedere subito della
tua poesia. Una poesia solo apparentemente piana ma in realtà, se dovessi
trovare una parola per caratterizzarla, elusiva-eleusina, sia nella linearità
dei significati sia nella natura della sua stessa radice.
Solstizio si intitola il tuo libro che subito si
annuncia nel suo portato cosmologico e temporale: il cosmo nel suo movimento ciclico
perpetuo e il tempo nella sua terribile fugacità. Entro questi due poli si
consuma la circonferenza della tua poesia e uso non a caso una figura
geometrica perfetta, come quella disegnata da Giotto. E se dovessi trovare un
movimento evidente o un’idea prevalente che sovraintenda alle tue poesie,
sempre diverse a partire dalla sillaba-cellula fino alla specifica forma
metrica, mi viene in mente quello di una rastremazione abbacinata e sottilmente
vertiginosa del tuo procedere senza scatti e senza scarti apparenti,
dolorosamente e quietamente, ma anche con un sistematico, martellante
spiazzamento perpetuo dentro ogni sequenza. Ecco, la tua poesia si è assunta il
compito di rastremare le scorie del nostro tempo e del nostro vivere. Il
risultato è un’abbagliante, un’elusiva-eleusina luce gettata nel fondo del pozzo,
un “pozzo sordo” scrivi, a rischiarare movimenti e gesti, frammenti di vita e
di emozioni, allenamenti fisici sempre lenti e in dissolvenza. Come sempre sono in dissolvenza le tue
figure-controfigure, altri io-non io frequentati nella realtà o nell’immaginazione
culturale o storica, altre persone, trapezisti da circo o di memoria biblica, o
magari altri poeti. Ma sarebbe più esatto dire una “luce irreale” come tu
scrivi, e a volte lievemente surreale, gettata su un immenso scrigno
trasparente o un acquario dove le figure, tutte, te compreso, sono più che
altro sagome, che lasciano intravedere una vita al rallentatore, più soffice di
quanto non sia, quasi un sogno dove scivolano uno sull’altro orizzonti e
storni, cieli e case, traghetti e treni. Più che significati e temi prevale nelle tue poesie il tono o
il timbro, che è sempre pacato e apparentemente dimesso, lento e musicale, come
quello di chi è allenato al silenzio e alla solitudine, ha attraversato “la
terra desolata” e, cambiando luogo o mettendosi nei panni di un io diverso, prova
a trovare sollievo senza riuscirci: “Così sospesi, come in un giorno / Di
vacanza, in attesa del dolore / Che svuota la testa”.
Elusivo lo sei anche con i maestri ben
innervati nella tua poesia, che pure ci sono e sono in tanti, come naturale in
un poeta dotto quale tu sei. Dove nasce la tua poesia, mi chiedo, tu che ti sei
occupato di tanti autori e certo molto di Sandro Penna, su cui stai ancora
lavorando, a quel che ne so, ma anche di Saba e Montale. A una lettura
superficiale non sembrano esserci tracce di Penna, che pure parrebbe inevitabile,
e non mi pare che queste tracce siano state rivenute da altri, quasi tu le avessi
meticolosamente cancellate, attenendoti in questo alla consegna del perugino. E
se Penna c’è, certo è dissimulato nel tuo metodico e brillante endecasillabo
sciolto, ricco di enjambement e senza
rime, e che inizia con una inusuale maiuscola anglosassone, quasi a consegnarci
una cifra di modernità della tua poesia. Ma, a ben leggere e rileggere, c’è
anche Penna, come non riconoscerlo nel clima di dormiveglia, tra sogno e
realtà, o nei rumori lontani della città che filtrano in una stanza con le
serrande abbassate, o nell’umore lieve e dolce che impregnano come un profumo tutto
Solstizio, o infine in questi tuoi
due versi: “Sono i ciclisti ad annunciare il giorno, / Un cane abbaia verso la
statale”. E ora che ti scrivo questo me ne convinco ancora di più. In fondo Solstizio è un po’ il libro di “un
viaggiatore insonne” con i suoi fantasmi.
Ma è anche molto altro. Naturalmente altri poeti si affacciano
dissimulati dalla tua consumata abilità, molti non italiani, per lo più
inglesi, a cominciare da Auden, nel tuo riconoscerti (“Sono quello che non ha
valigie da portare”) nella sua vita raminga e solitaria: “Il circolo vizioso
della solitudine: / Eri senza bagaglio”. Il flusso della tua poesia trascina
come in un fiume frammenti mentali, lacerti liquidi di una mente piena di
dolore, o, come ci ha insegnato Wallace Stevens, di un “mondo come
meditazione”.
Spontaneamente mi è venuta la curiosità
di avere tra le mani il tuo quaderno di traduzioni, Gabbie per nuvole, con quel titolo che allude alle grate metriche di
quello che c’è di più bello e puro che è il cielo (o la poesia), quando lo
vediamo passeggiando e ci facciamo accarezzare. Le poesie come gabbie improbabili
di tutto quello che è mobile, liquido, appunto non ingabbiabile. Come dire
cancelli del cielo. Impossibile. Particolarmente belle le due ultime sezioni,
con un umanesimo dolorante ma mai negativo o disperato, che non possono non
farti sentire a me vicino.
“Ti chiedo a voce bassa di tornare”,
scrivi rivolgendoti alla Musa con garbo e senza alzare la voce o strepitare. Si
è strepitato tanto ed è già prezioso il fatto che quel dialogo con la Musa posa
ancora proseguire. È imbronciata,
d’accordo. “Stai girata di spalle e guardi altrove”, osservi, d’accordo, ma
“Qualche margine resta per parlarci”. Siete tu e la Musa “due estinti soli”, ma
ci siete nonostante le reciproche distrazioni, il sole c’è ancora nel suo ciclo
annuale e giornaliero, dal buio alla luce e viceversa. Il sole e la poesia ci
sono, ombroso il primo e solare la seconda in reciproco rovesciamento
solstiziale, e questo ci consola: “Forse non tutto è perduto, forse”.
Tanti
cari auguri, “auguroni”, come mi scriveva Amelia, un abbraccio,
Gabriella Sica
Roma, 10 novembre 2014
giovedì 13 novembre 2014
AILANTO n. 11 - Su Paolo Lisi
Non mi piace discutere di poesia
per assetti generazionali, eppure avverto tra alcuni miei coetanei, compreso
qualche “fratello maggiore”, un doppio e condiviso movimento. Da un lato la
necessità di un dialogo con la tradizione, compresa la riscoperta, la ripresa
di alcuni “classici minori” e più recenti che sono elevati a modelli;
dall’altro una riflessione sulla poesia che si confonde spesso con motivi
autobiografici e che si esprime attraverso note di un desolato solipsismo. È
quanto accade, almeno in parte, anche nell’ultimo libro di Paolo Lisi, dal
titolo emblematico E la colpa rimane,
apparso da Passigli con una partecipe prefazione di Francesco Napoli. Ad
apertura di volume, infatti, mi viene subito incontro il “classico minore”
sotto le spoglie di Angelo Maria Ripellino, con un esergo da Autunnale barocco sui temi
dell’indifferenza e del futuro, per quanto riguarda la propria opera: «Non si
accorgeranno nemmeno / di quello che hai scritto. / Getteranno i tuoi versi tra
gli stracci vecchi». È un viatico volutamente fuorviante, credo, che vorrebbe
riportarci su questioni antiche e farci spostare l’attenzione dalla poesia alla
sociologia della letteratura. A fare da controcanto, in una inquietante
simmetria, è invece l’ultima poesia del libro, quella che dà il titolo, e che –
ci avverte Napoli – è stata aggiunta solo in una seconda revisione. Qui Lisi ci
racconta le sue colpe, con un tono duramente confessionale e sostenuto, tra cui
quella «di aver speso parole quando / c’era solo da ascoltare», e ancora «di
aver taciuto / quando invece era necessario / gridare più forte». Ecco dunque
che quel doppio movimento a cui accennavo sembra essersi compiuto proprio sulle
soglie del libro, in qualche modo incorniciandone le tensioni: ciò che il
modello poteva suggerire come estremo canto del cigno diviene qui una questione
ben più problematica, che non investe più la durata della poesia (la propria,
anzitutto), ma le sue necessità profonde in rapporto all’evidenza di un
disagio. Quello di essere fuori tempo e fuori spazio, di essere, in definitiva,
inadeguato. Di non aver risposto come forse ci si attendeva.
Quando c’era da gridare il poeta
ha taciuto, e quando c’era da ascoltare ha speso parole invano. Qualcosa, nella
geometria esistenziale di Lisi, chiaramente non torna. E questo libro ne è per
certi aspetti il diario, il regesto, l’elenco possibile per cui la pagina
diventa un tesissimo autodafé. Ma non
c’è solo questo: «mentre tutto inesorabilmente crolla» e l’asse stesso dei
valori su cui la poesia fonda la capacità di riplasmare il mondo è messo a
durissima prova, c’è un ulteriore controcanto, che fa di questi versi un
piccolo sistema anfibio. Siamo, «inesorabilmente», doppi, abitiamo luce e
ombra. È l’amore, l’amore che accade e si ripete «nell’immediato», senza
costrizioni di spazio o di tempo. È ciò che consente il dialogo con una figura
indefinita, un vago femminino, forse una proiezione, un altro-da-sé, in grado
di far generare ancora parole: un motore, insomma, una sorgente anche
espressiva, per poter ancora declinare l’assenza e il dolore.
Paolo Lisi, E la colpa rimane,
prefazione di Francesco Napoli, Passigli 2013, e. 12.00.
Talenti
Hanno un bel da fare
non si tirano indietro mai.
Non per niente sono giovani
non per niente hanno talento.
Sicuri di sé affrontano
Il mondo. Non cercano padri:
s’infrangono
contro il loro riflesso.
Verso la soglia dei quaranta io
ascolto il mare all’ombra
di un pino. Al riparo,
leggo poesie. Ogni tanto
ne scrivo qualcuna:
più spesso me ne dimentico.
Ho scritto quello che ho vissuto,
ho vissuto quello che ho letto.
Al momento
abito con rigore il mio tempo.
sabato 8 novembre 2014
Qualche appunto su Malaspina di Maurizio Cucchi
All’avvio della Commedia, nel I canto, Dante ci dice che
al levarsi del sole si attenua la paura che gli è durata tutta la notte «nel
lago del cor». A distanza di secoli, Montale riprende quest’immagine e fa del
cuore di Dora Markus, così profondamente inciso dalla Storia, un «lago
d’indifferenza». Non so quanto coscientemente l’autore abbia inteso riprendere
quell’immagine, ma ho avuto la precisa sensazione che anche per l’ultimo libro
di Cucchi sia accaduto qualcosa di analogo: Malaspina, il piccolo lago che dà
il titolo al volume, è il lago del cuore, o meglio, è il nome con cui il poeta
riconosce, identifica il suo cuore-lago.
La poesia moderna ci ha abituato
all’uso frequente di toponimi, di nomi geografici, perfino di semplici strade
(chi non ricorda la via Scarlatti di Sereni?), che acquistano uno straordinario
potere di evocazione. Così anche un piccolo lago può diventare il nome di una
potente metafora, che la tradizione non è ancora riuscita a usurare.
Immaginiamo questo lago calmo in superficie, ma profondo, icona di quelle
sospensioni felici come di quelle adesioni improvvise che scandiscono il ritmo
autentico, percettivo e sentimentale, di tutto questo libro.
Una doppia dimensione,
orizzontale e verticale, accoglie queste poesie: la prima contiene luoghi,
eventi, persone; la seconda, invece, si riempie di memorie e reinvenzioni, così
strettamente intrecciate tra loro nella dinamica compattezza della metafora.
Ovvero quella di un io che si espande e si misura con le sponde porose del
proprio mondo fenomenico e che insieme si cala, discende dentro se stesso, fino
a imbattersi nella propria natura più misteriosa e contraddittoria.
Non sorprende, allora, che anche
il berretto a sonagli, così novecentesco, così pirandelliano, sia rievocato in
questi versi non tanto per indicare la follia, vera o presunta, ma la scoperta
ben più radicale di un’alterità dell’io, della sua resa alla molteplicità delle
cose, ai loro intrecci più sconosciuti. Gli emblemi della discesa (l’ennesima descensus ad inferos della modernità
lirica) ci sono davvero tutti: il poeta è una specie di archeologo che
s’avventura nella cantina della propria memoria. E qui può ritrovare, come
emerse dal fondo melmoso di un lago, ombre riconosciute o fittizie, rifrazioni
e proiezioni che gli si fanno incontro traversando quell’inusitato spazio
metaforico, fattosi comune, condiviso con il lettore: quello spazio dove le
verità parlano la lingua di una commedia e la commedia appare infine vera.
martedì 4 novembre 2014
AILANTO n. 10 - Su Alessio Brandolini
Anche nel nuovo libro di Alessio
Brandolini, Nello sguardo del lupo,
ritrovo tracce evidentissime di un curioso animale letterario, di una creatura
fantastica, del tutto inesistente eppure più vera di ogni possibile visione.
Parlo di quella sorta di mostro uscito dalla fantasia di Borges, che
dichiarava, a sua volta, di averlo ereditato da una leggenda di boscaioli del
Wisconsin, abituati alle lunghe solitudini tra i boschi: lo hide-behind. Sua caratteristica è quella
di trovarsi sempre alle nostre spalle e di restare perennemente invisibile.
Avvertiamo la sua presenza, ma non riusciamo a scorgerlo; appena proviamo a
voltarci, lui è sempre più svelto di noi. Il lupo che si muove negli interstizi
di queste poesie, che ne popola i versi e ne scandisce il movimento guardingo, ha
davvero molto dello hide-behind, se
questo, come credo, è la metafora più riuscita di tutto quel grumo di ansie,
ossessioni, paure con cui quotidianamente siamo chiamati a confrontarci. Ma,
come il suo stesso nome suggerisce, lo hide-behind
vive nascosto dietro di noi, ci segue come un’ombra, ma non ci è concesso
fronteggiarlo; Brandolini sembra invece essere riuscito lì dove nessuno aveva
osato spingersi, deve aver guadagnato in velocità al punto da ritrovarsi
davanti al lupo, e di poterne sostenere lo sguardo.
Il problema sorge quando, con
assoluta consapevolezza, il poeta intende quello sguardo come il proprio. Anzi,
quello sguardo è il suo sguardo, l’«occhio-proiettile» che non sa cessare di
correre attraverso indefinite zone oscure, ombrose, dove la città così tanto
evocata, fino all’autocitazione (il «Tevere in fiamme», o più indietro
«l’alba a Piazza Navona»)
indietreggia fino a un paesaggio di muffa. Non so quanto questi ritorni a
distanza congiurino alla creazione di un insieme, di un sistema poetico; sarei
più tentato di leggerli come delle risalite dalle profondità del tempo e
dell’esperienza, che qui vengono a corroborare un impianto decisamente
solipsistico. C’è Roma, in tutta la sua maestà: i luoghi sono
riconoscibilissimi, dal Gianicolo all’Isola Tiberina, da Fontana di Trevi a
corso Rinascimento, dove svetta la cupola borrominiana di Sant’Ivo alla
Sapienza, fino alle rovine di Tuscolo; e questa imponente geografia urbana,
così monumentale, diviene piuttosto lo scenario di una mancanza, declinata come
incontro, come amore, come semplice appuntamento, ma sempre in negativo. Nel
pieno della città barocca l’horror vacui
si tradisce e lascia scorgere un punto da dove il soggetto può infine
contemplare se stesso in tutte le sue contraddittorie manifestazioni, nelle sue
aspirazioni disilluse, nel suo non riuscire a trattenere, sotto il «diluvio
delle parole», atti e gesti con cui ricostruire un’identità possibile, mentre
la realtà si riduce a un susseguirsi di grotteschi.
Il ritmo, specie nelle sequenze
in prosa, sembrerebbe suggerire una pulsione vagamente automatique, che talora fa ricordare certe intemperanze di Amelia
Rosselli; eppure si assiste a un collage sapiente, al disfarsi, sulla pagina,
di un’energia associativa che necessita non solo di recuperare le immagini del
passato come metafore ossessive, ma di reintegrarle in una ripetizione di
luoghi e di eventi: proprio come se, alla fine, il proiettile avesse
necessariamente mancato il suo bersaglio, e l’io si fosse definitivamente
riconosciuto nel fuori-centro (anamorfico, barocco) da cui osserva. Da lì, le
impronte del lupo, del poeta che si è fatto lupo, ci invitano a seguire un
sentiero di cupo ripiegamento; come in una vasta tradizione, l’io-barca
(l’altro vettore metaforico del libro) rischia di restare imprigionato nella
tempesta, o di giungere in un porto che crolla comunque.
Alessio Brandolini, Nello sguardo
del lupo, La Vita Felice, 2014, e. 13,00.
Sfiorito come non mai perché
stufo
delle oscillazioni, nell’arido
terreno
da mesi senz’acqua, bloccato
dal groviglio che lievita nel cuore.
Una vita oscura e gelida: un seme?
Per trovare la luce ti cali nel pozzo.