Anche nel nuovo libro di Alessio
Brandolini, Nello sguardo del lupo,
ritrovo tracce evidentissime di un curioso animale letterario, di una creatura
fantastica, del tutto inesistente eppure più vera di ogni possibile visione.
Parlo di quella sorta di mostro uscito dalla fantasia di Borges, che
dichiarava, a sua volta, di averlo ereditato da una leggenda di boscaioli del
Wisconsin, abituati alle lunghe solitudini tra i boschi: lo hide-behind. Sua caratteristica è quella
di trovarsi sempre alle nostre spalle e di restare perennemente invisibile.
Avvertiamo la sua presenza, ma non riusciamo a scorgerlo; appena proviamo a
voltarci, lui è sempre più svelto di noi. Il lupo che si muove negli interstizi
di queste poesie, che ne popola i versi e ne scandisce il movimento guardingo, ha
davvero molto dello hide-behind, se
questo, come credo, è la metafora più riuscita di tutto quel grumo di ansie,
ossessioni, paure con cui quotidianamente siamo chiamati a confrontarci. Ma,
come il suo stesso nome suggerisce, lo hide-behind
vive nascosto dietro di noi, ci segue come un’ombra, ma non ci è concesso
fronteggiarlo; Brandolini sembra invece essere riuscito lì dove nessuno aveva
osato spingersi, deve aver guadagnato in velocità al punto da ritrovarsi
davanti al lupo, e di poterne sostenere lo sguardo.
Il problema sorge quando, con
assoluta consapevolezza, il poeta intende quello sguardo come il proprio. Anzi,
quello sguardo è il suo sguardo, l’«occhio-proiettile» che non sa cessare di
correre attraverso indefinite zone oscure, ombrose, dove la città così tanto
evocata, fino all’autocitazione (il «Tevere in fiamme», o più indietro
«l’alba a Piazza Navona»)
indietreggia fino a un paesaggio di muffa. Non so quanto questi ritorni a
distanza congiurino alla creazione di un insieme, di un sistema poetico; sarei
più tentato di leggerli come delle risalite dalle profondità del tempo e
dell’esperienza, che qui vengono a corroborare un impianto decisamente
solipsistico. C’è Roma, in tutta la sua maestà: i luoghi sono
riconoscibilissimi, dal Gianicolo all’Isola Tiberina, da Fontana di Trevi a
corso Rinascimento, dove svetta la cupola borrominiana di Sant’Ivo alla
Sapienza, fino alle rovine di Tuscolo; e questa imponente geografia urbana,
così monumentale, diviene piuttosto lo scenario di una mancanza, declinata come
incontro, come amore, come semplice appuntamento, ma sempre in negativo. Nel
pieno della città barocca l’horror vacui
si tradisce e lascia scorgere un punto da dove il soggetto può infine
contemplare se stesso in tutte le sue contraddittorie manifestazioni, nelle sue
aspirazioni disilluse, nel suo non riuscire a trattenere, sotto il «diluvio
delle parole», atti e gesti con cui ricostruire un’identità possibile, mentre
la realtà si riduce a un susseguirsi di grotteschi.
Il ritmo, specie nelle sequenze
in prosa, sembrerebbe suggerire una pulsione vagamente automatique, che talora fa ricordare certe intemperanze di Amelia
Rosselli; eppure si assiste a un collage sapiente, al disfarsi, sulla pagina,
di un’energia associativa che necessita non solo di recuperare le immagini del
passato come metafore ossessive, ma di reintegrarle in una ripetizione di
luoghi e di eventi: proprio come se, alla fine, il proiettile avesse
necessariamente mancato il suo bersaglio, e l’io si fosse definitivamente
riconosciuto nel fuori-centro (anamorfico, barocco) da cui osserva. Da lì, le
impronte del lupo, del poeta che si è fatto lupo, ci invitano a seguire un
sentiero di cupo ripiegamento; come in una vasta tradizione, l’io-barca
(l’altro vettore metaforico del libro) rischia di restare imprigionato nella
tempesta, o di giungere in un porto che crolla comunque.
Alessio Brandolini, Nello sguardo
del lupo, La Vita Felice, 2014, e. 13,00.
Sfiorito come non mai perché
stufo
delle oscillazioni, nell’arido
terreno
da mesi senz’acqua, bloccato
dal groviglio che lievita nel cuore.
Una vita oscura e gelida: un seme?
Per trovare la luce ti cali nel pozzo.
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