Non mi piace discutere di poesia
per assetti generazionali, eppure avverto tra alcuni miei coetanei, compreso
qualche “fratello maggiore”, un doppio e condiviso movimento. Da un lato la
necessità di un dialogo con la tradizione, compresa la riscoperta, la ripresa
di alcuni “classici minori” e più recenti che sono elevati a modelli;
dall’altro una riflessione sulla poesia che si confonde spesso con motivi
autobiografici e che si esprime attraverso note di un desolato solipsismo. È
quanto accade, almeno in parte, anche nell’ultimo libro di Paolo Lisi, dal
titolo emblematico E la colpa rimane,
apparso da Passigli con una partecipe prefazione di Francesco Napoli. Ad
apertura di volume, infatti, mi viene subito incontro il “classico minore”
sotto le spoglie di Angelo Maria Ripellino, con un esergo da Autunnale barocco sui temi
dell’indifferenza e del futuro, per quanto riguarda la propria opera: «Non si
accorgeranno nemmeno / di quello che hai scritto. / Getteranno i tuoi versi tra
gli stracci vecchi». È un viatico volutamente fuorviante, credo, che vorrebbe
riportarci su questioni antiche e farci spostare l’attenzione dalla poesia alla
sociologia della letteratura. A fare da controcanto, in una inquietante
simmetria, è invece l’ultima poesia del libro, quella che dà il titolo, e che –
ci avverte Napoli – è stata aggiunta solo in una seconda revisione. Qui Lisi ci
racconta le sue colpe, con un tono duramente confessionale e sostenuto, tra cui
quella «di aver speso parole quando / c’era solo da ascoltare», e ancora «di
aver taciuto / quando invece era necessario / gridare più forte». Ecco dunque
che quel doppio movimento a cui accennavo sembra essersi compiuto proprio sulle
soglie del libro, in qualche modo incorniciandone le tensioni: ciò che il
modello poteva suggerire come estremo canto del cigno diviene qui una questione
ben più problematica, che non investe più la durata della poesia (la propria,
anzitutto), ma le sue necessità profonde in rapporto all’evidenza di un
disagio. Quello di essere fuori tempo e fuori spazio, di essere, in definitiva,
inadeguato. Di non aver risposto come forse ci si attendeva.
Quando c’era da gridare il poeta
ha taciuto, e quando c’era da ascoltare ha speso parole invano. Qualcosa, nella
geometria esistenziale di Lisi, chiaramente non torna. E questo libro ne è per
certi aspetti il diario, il regesto, l’elenco possibile per cui la pagina
diventa un tesissimo autodafé. Ma non
c’è solo questo: «mentre tutto inesorabilmente crolla» e l’asse stesso dei
valori su cui la poesia fonda la capacità di riplasmare il mondo è messo a
durissima prova, c’è un ulteriore controcanto, che fa di questi versi un
piccolo sistema anfibio. Siamo, «inesorabilmente», doppi, abitiamo luce e
ombra. È l’amore, l’amore che accade e si ripete «nell’immediato», senza
costrizioni di spazio o di tempo. È ciò che consente il dialogo con una figura
indefinita, un vago femminino, forse una proiezione, un altro-da-sé, in grado
di far generare ancora parole: un motore, insomma, una sorgente anche
espressiva, per poter ancora declinare l’assenza e il dolore.
Paolo Lisi, E la colpa rimane,
prefazione di Francesco Napoli, Passigli 2013, e. 12.00.
Talenti
Hanno un bel da fare
non si tirano indietro mai.
Non per niente sono giovani
non per niente hanno talento.
Sicuri di sé affrontano
Il mondo. Non cercano padri:
s’infrangono
contro il loro riflesso.
Verso la soglia dei quaranta io
ascolto il mare all’ombra
di un pino. Al riparo,
leggo poesie. Ogni tanto
ne scrivo qualcuna:
più spesso me ne dimentico.
Ho scritto quello che ho vissuto,
ho vissuto quello che ho letto.
Al momento
abito con rigore il mio tempo.
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