Oggi do avvio a una rubrica di letture di libri di poesia all'interno del blog. Lo faccio da qui, piuttosto che da giornali o riviste (esiste già il «Periscopio» su «Poeti e poesia», di cui mi occupo) per sentirmi più libero nelle scelte e per non avere obblighi di scadenze. Del resto i libri che ci fanno saltare sulla sedia non hanno scadenze, al contrario ci costringono a riaprirli. Non posso sapere se tutti i libri di cui scriverò sono di quella specie, ma voglio comunque condividerli e segnalarveli. Il titolo si riferisce all'ailanto, l'albero del Paradiso, perché cresce così alto da toccare il cielo. Ed è invasivo, come vorremmo tutti che fosse la poesia.
L’esperienza della malattia,
diretta o indiretta, muta irreversibilmente il nostro orizzonte di comprensione
del mondo, apre un varco, un «uscio» verso una prospettiva diversa. È come
osservare lo stesso paesaggio, ma da un’altra finestra. Emergono particolari,
colori, storie. Anche dolori. L’ös, l’uscio, è il titolo che Franca
Grisoni ha scelto per il suo ultimo libro, pubblicato nelle belle edizioni
L’Obliquo di Brescia. Franca Grisoni è uno dei poeti che seguo e amo
particolarmente, a dispetto della sua lingua (il dialetto di Sirmione), che mi
costringe a leggere la versione italiana a fondo pagina. Ma è uno sforzo che
ricompensa. Aveva ragione Cesare Garboli nell’indicare in quest’autrice una
potenza espressiva davvero rara, raggiunta con pochi mezzi, semplici quanto
essenziali. A questa scrittura, già così scarna, non si riesce davvero a
sottrarre nulla, l’asciuttezza è il suo tratto immediatamente visibile. E
udibile, per chi sappia cogliere i suoni di quel dialetto.
La malattia, dicevo, è il tema
portante di questo libro, ma ne è anche il vettore percettivo, poiché spinge il
lettore a spostare di continuo il proprio assetto di valori e pensieri intorno
ai mali del corpo. La fisicità, altro elemento che collega il lavoro di Franca
Grisoni, di libro in libro, è qui piegata dall’incombere del male, anche nella
specie della vecchiaia e dell’abbandono, e diviene per il poeta qualcosa di
strumentale, uno scandaglio nei recessi più dolorosi della corporalità. Ma non
è solo il male a emergere dal male: Grisoni sa andare ben oltre le facili
tautologie e fa della malattia e del decadimento occasioni straordinarie per
disegnare un paesaggio diverso, dove la repulsione o la curiosità di superficie
possono lasciare ancora spazio alla reciprocità, alla pietas nel senso più alto. Trascrivo direttamente in traduzione: «I
buchi dei chiodi freschi / me li fai toccare?». Ecco, in questa passione che è
per il poeta ampia quanto un orizzonte evangelico e che abbraccia una geografia
umana e permea di quella sostanza («Qualcosa, come chiamarlo?») in cui tutti
possiamo infine riconoscerci, Grisoni individua il nucleo di una pienezza
ancora possibile, che contrasti il «vuoto» (termine ricorrente di queste
poesie) del male, quando occupa il corpo e lo disfa.
L’«uscio» è una via di collegamento,
una soglia che si può percorrere da una direzione all’altra, almeno sul piano
della scrittura. È quello che accade in questi versi, dove la concretezza può
spesso cedere a una tonalità mistica, senza per questo perdere nulla. Del
resto, a quella tradizione Grisoni attinge spesso, reinventandola a suo modo,
traducendola modernamente in rapporto, relazione, empatia.
Franca Grisoni, L’ös,
nota introduttiva di Marco Trabucchi, Brescia, Edizioni L’Obliquo, 2013, e.
13,00.
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