domenica 4 agosto 2024

La pittura verso la poesia. Per Giuseppe Modica


 








Sappiamo bene quanto la diversità possa spiazzare l’osservatore, come il lettore. Il nostro orizzonte d’attesa si costruisce intorno alle costanti che un artista o uno scrittore evidenziano di opera in opera, di tappa in tappa, e di quelle costanti si va nutrendo. Eppure esiste anche una forma di straniamento causata non dalle varianti, ma dalla ripetizione, o meglio dall’arte della ripetizione; perché questa è, infine, una specie della retorica, un modo di assestare il proprio linguaggio, che sia di immagini o di parole, o di entrambi.

La citazione e l’allusione segnano profondamente il tracciato pittorico di un artista come Giuseppe Modica, fino a divenire un’ossessione, un marchio di fabbrica riconoscibilissimo; una metafora che si estenua in un racconto possibile, o in più ipotesi di racconto. Non sorprende che Modica abbia accompagnato, in più occasioni, le scritture di letterati e poeti (da Sciascia fino a protagonisti più recenti della nostra poesia, come Nino De Vita e Maria Clelia Cardona); il suo segno è metaforico proprio per la carica di allusività che sottintende. Non mi riferisco tanto ai cromatismi, alle scelte tonali, tra cui, come è ormai evidente, predominano gli azzurri (cielo e mare, soprattutto), qua e là inframmezzati da apparizioni color ruggine, che sembrano lasciare sulla tela l’impronta del tempo, o meglio della Storia. Penso piuttosto al ritorno, di tela in tela, di ciclo in ciclo, ma anche di tecnica in tecnica (Modica è anche uno splendido incisore), di alcune morfologie in cui vanno a condensarsi certi elementi del paesaggio, che resta il grande protagonista di questa pittura. Se guardiamo con attenzione alle rocce, agli scogli, ai frangiflutti che delimitano le frequenti visioni marine, non tardiamo ad accorgerci di una presenza ricorrente, quella di Dürer; talmente ricorrente da indurre più che il sospetto, in chi osserva, che quella forma sia un passo in là rispetto al semplice piano della citazione o dell’omaggio, divenendo così una componente semantica essenziale dell’immagine complessiva.

Dürer, il grande disegnatore delle melancolie, l’inventore di complesse allegorie, è incessantemente evocato, ma non alla stregua di un possibile nume tutelare; è piuttosto, con la sua carica di mistero e di inquietudine, l’estremo di un vasto campo di tensioni che attraversano e incidono a fondo sia il cammino dell’uomo sia la possibilità stessa di rappresentarlo. I suoi prismi irregolari, nudi, asciutti, sono forse l’ultima ara su cui si immola il senso perduto della Storia. Perché dietro, sotto, accanto a questi ampi affreschi (riescono a esserlo anche quando le misure della tela sono minime, legando così il segno di Modica alla perfezione di tanta miniatura del paesaggio tra Quattro e Cinquecento), naturali o urbani, riaffiora prepotentemente un dramma. Modica, in questo senso, è il grande fotografo del Kairòs, dell’attimo di grazia prima della tempesta. Oppure quella tempesta è già avvenuta o è ancora lì, sotto le sue pennellate, e basta allora decifrarne la portata.

Una considerazione ulteriore ci induce a riflettere su quanto la calma quasi artificiale di queste rappresentazioni contenga invece il senso di una tragedia: la quasi totale assenza dell’umano. Nei quadri di Modica la presenza dell’uomo è paradossalmente un fait accompli; anche qui, secondo una formula retorica, restano pochi segni. Siamo di fronte a una pittura densamente metonimica: una scala appoggiata a un muro, una persiana aperta sul mare o su una campagna infinita, uno specchio: oppure case che si affacciano su un molo, su un porto aperto a sua volta sul mare vastissimo: sono questi i dettagli, gli oggetti che ci invitano a riconsiderare, nella sua clamorosa latenza, l’umano di cui portano la traccia, di cui recano il ricordo. Citando un titolo di Cortázar, «qualcuno è passato di qui». Insomma, ci sarebbero tutti gli elementi per fare di Modica l’ultimo dei metafisici, o l’iniziatore di una nuova enigmistica senza soluzioni, che è poi l’altra possibile fisionomia di un razionalista disilluso. La Storia che la pittura, o la poesia, possono ri-creare, ri-conoscere, è davvero il palcoscenico di una drammaturgia in negativo (spesso, come in Caspar Friedrich, o come in Velázquez, l’immagine è ritratta di spalle, o al contrario, divenendo riflesso specchiato); il segno più forte, più incisivo, più inaccettabile è senza dubbio il numero, che compare sulle tele più recenti a segnalare che proprio lì, in quel punto, nella grande rete del Mare Nostrum, qualcuno ha perso la sua vita.

Come è circolare, per un filosofo come Vico, l’azione della Storia, così in Modica la figura del cerchio viene a chiudere, in una sinistra fenomenologia, il rincorrersi delle immagini. Questo accade soprattutto in quegli interni vuoti, desolati, dalle pareti scrostate, che un tempo furono abitati e che oggi sono come la lente, il cannocchiale attraverso cui puntiamo gli occhi sull’infinito che fuori ci attende; o li puntiamo su mappe rovesciate, non solo per effetto di specularità, ma anche e soprattutto per ammettere quanto siano sconvolte e fuori coordinata le nostre attuali, presunte geografie. Eppure anche l’infinito ha un limite, in Modica, un orizzonte plausibile segnato da presenze ugualmente inquietanti. Sul filo più distante del nostro sguardo ci attendono navi, forse navi della salvezza o di una guerra imminente, di una minaccia incombente, sospese proprio lì, mai centrali, ma sempre sul punto di guadagnarsi il fuoco della prospettiva; oppure un’isola, che forse è una fortezza, uno dei tanti bastioni spagnoli che governavano le città del centro Italia, con la loro carica opprimente; forse una prigione (If o Alcatraz), forse il luogo ultimo di un’attesa anch’essa infinita e spossante (come non pensare alla Fortezza Bastiani nel Deserto dei Tartari…). È allora, quando lo spazio è così definito e riconosciuto, che il crinale lungo cui Modica mescida con partecipazione ma anche con sorniona sapienza il suo illuminismo critico (come era stato per Sciascia) a un’allure enigmatica e metafisica, si palesa nell’invito, neppure troppo latente, a tenere acceso il pensiero; è proprio allora che l’osservatore si riconosce lettore in una sorta di sospensione, quella di cui si sostanzia il perturbante fantastico sulle icone della nostra quotidianità.

 

La mostra Rotte mediterranee di Giuseppe Modica, a cura di Gabriele Simongini e Maria Giuseppina Di Monte, è aperta fino al 15 settembre al Museo Andersen di Roma.

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