È ancora possibile, dalla sponda di questo millennio, abitare, vivere la dimensione del classico? Oppure è qualcosa che possiamo soltanto illuderci di pensare? E soprattutto, a quale idea di classicità possiamo ancora rifarci, in un’epoca decisamente segnata da correnti, spinte, tendenze che si affermano nella labilità del provvisorio, senza ambire a quella durata – temporale e sostanziale – che in passato era un fattore implicito della ricerca artistica? Si tratta di interrogativi che in realtà non sorgono solo in quest’ultimo residuo di estenuata modernità, ma che hanno radici ben più profonde, accompagnando, di fatto, l’avvento di ciò che ancora definiamo moderno. Proprio nell’era in cui la poesia, in una sorta di canto del cigno, tornava ad affermare la sua presenza e la sua pervasività, specie sul versante lirico e su quello di grandi costruzioni poematiche, si acquisiva la coscienza che ormai l’era della vera poesia doveva essersi conclusa e che a questa si poteva soltanto sostituire l’era del pensiero di ciò che era inevitabilmente perduto. Gli dèi se n’erano andati da un pezzo. E le parentesi storiche e culturali, pur pregnanti, in cui il classico poté tornare ad affacciarsi si affermarono in realtà come studia, come riflessione, recupero e riemersione di quanto già appariva lontano. Gli otia di un Petrarca o di un Machiavelli stabilivano più una presa di distanza, un isolamento dal presente che una sua rimodellizzazione nella specie del classico. Probabilmente Hölderlin – ma accanto a lui collocherei per vie diverse Keats e Leopardi - fu il poeta al quale fu chiesto di pagare il prezzo più alto di questa consapevolezza, e fu la moneta della pazzia. Tenere lo sguardo rivolto all’indietro, come avrebbe fatto l’angelo di Klee, mentre il vento della storia impone alle ali di andare avanti, significa trasmutare la nostalgia di un clima preciso in una malinconia indifferenziata e non più sopportabile.
Proprio quando il Novecento volgeva alla boa del duemila, su quella soglia che avrebbe indicato un discrimine culturale e generazionale fortissimo, appariva presso la «Fenice contemporanea» di Guanda la prima edizione di un libro di versi. Era il 1998, si intitolava Con parole remote e il suo autore, Giancarlo Pontiggia, esordiente meditato e tardivo, non era certo nuovo alle cronache della poesia. Voltando le spalle a quanto compiuto negli anni Settanta e relegatosi a lungo in un silenzio che aveva davvero molto di quegli studia e di quegli otia, Pontiggia consegnava ai lettori un libro per molti aspetti eterodosso rispetto alle linee allora dominanti; veniva da un rapporto stretto e ben collaudato con i classici, con la loro lingua, con il loro mondo. Un nuovo sentimento dell’antico affiorava da quei versi tesissimi e bilanciati in una discorsività necessariamente frammentata, volta a recuperare come i barlumi di un oracolo remoto. Altro non poteva farsi, di questo l’autore era assolutamente consapevole. Così, al tema modernissimo del pensiero, che aveva già sostituito per i romantici quello della creazione diretta, ovvero del canto, Pontiggia aggiungeva e sovrapponeva quello della «custodia»; le sue «parole remote» divenivano il «fuoco tutelare» al cui calore – ma anche alle cui ombre – si poteva tornare a dire qualcosa intorno a una dimensione perduta, ma ancora evocabile.
Oggi quel libro viene riproposto in una nuova edizione per l’editore Vallecchi, con l’ampia appendice di una vera e propria dichiarazione di poetica. Pontiggia non è nuovo a questo, è autore di svariati volumi di saggi sulla poesia e sulla natura della poesia ed è intellettuale di raro respiro, in questo senso. Qui, però, la sua generosità nel disvelarsi è assoluta; si direbbe che ogni testo, quasi ogni verso di questo libro venga passato al vaglio dell’autocommento, non solo indicando ai nuovi lettori le possibili fonti, i richiami letterari e culturali che ne hanno accompagnato la lunga e indifferibile gestazione, ma seguendone anche e soprattutto lo sviluppo tematico, l’intreccio dei motivi e delle immagini ricorrenti. Tra queste, la rete numero/fuoco/forma/luce, nella quale si agita una delle rappresentazioni più vive dell’intera raccolta: quella dell’ombra, restituita con uno straordinario ed efficace colpo di reni alla sua temperie semantica originaria, «al di qua di ogni simbolismo e di ogni mistica della parola», scrive Pontiggia; semmai nel complesso mitologema del seme che si fa vita, pianta, forzando l’oscuro della terra. In questa dimensione ancora aurorale della parola, per l’appunto «remota», il poeta ritrova la via per evocare una personalissima mnestica delle ore pomeridiane, in una lontana estate dei primi anni Sessanta, quando, avviandosi ormai fuori dai territori dell’infanzia più propria, il mondo appare come un’avventura distesa pericolosamente fino al tramonto; recuperando, di quella fascinazione ipnotica, l’improvvisa fiamma in grado di illuminare un «cuore ombroso».
Giancarlo Pontiggia, Con parole remote, con una introduzione di Sergio Givone, Vallecchi 2024, e. 16.00.
Penso l’estremo del frammento
con animo umile, devoto.
Pronuncio versi semplici,
incisi in legno di olmo.
Voglio credere nel loro senso,
nel loro silenzio di polvere.
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