sabato 26 novembre 2016

AILANTO n. 37 - Su Alberto Toni






Alberto Toni è un poeta che non ha mai smesso di confrontarsi con la tradizione, e in particolare con quella a lui più prossima, la grande tradizione poetica del secolo scorso: quello in cui è nato e si è formato. Ma la tradizione non è mai stata, per lui, la superficie liscia di uno specchio in cui osservarsi, anche nel termometro delle passioni e degli umori, e neppure un polo di tensione. Ci sono autori per i quali volgere lo sguardo al passato, non importa quanto lontano, rappresenta un gesto di sfida, o la necessità di ribadire una presa di distanza. Così come ve ne sono altri che senza quel passato perderebbero il nerbo delle loro polemiche, delle loro messe a punto: un canone, lo sappiamo, coincide solo in minima parte con una costellazione, ovvero con i maestri e compagni di strada che ci si è scelti. Toni, piuttosto, nel Novecento dei poeti sembra sentirsi perfettamente a suo agio: quelle mura, per quanto dolenti, drammatiche, poco rassicuranti, sono la sua dimensione ideale, circoscrivono il perimetro di quella «stanza tutta per sé» dove ritrovare e riaffermare, ogni volta, la sua identità.
Si può leggere in questa prospettiva anche la sua ultima fatica, sintomaticamente intitolata Il dolore. Anche qui il lettore ritrova alcuni parametri fissi della scrittura di Toni: luoghi, viaggi, incontri che delimitano un mondo di esperienze, con un occhio rivolto alla realtà e l’altro alla memoria. Ma rispetto alle prove precedenti, ed entrando nel pieno della sua maturità, il poeta in questo libro lascia alcuni inevitabili e chiarissimi senhals in direzione di un passato che continua a rappresentare, per lui, la sola, vera eredità. A partire dal titolo, preso di sana pianta come un omaggio esibito - e dunque senza sfrontatezza, ma con l’aria di chi può sentirsi autorizzato a farlo – da uno dei grandi libri del suo Novecento, il libro che Ungaretti scrisse nel pianto per un lutto imprevisto e insanabile. Sfogliando Il dolore ci s’imbatte ancora in un altro senhal: l’«upupa», uno degli emblemi montaliani; ma a Montale risale anche la prima allegoria a cui Toni si ispira, quella della «trota sannita», davvero una «sorella» dell’«anguilla». E il Percorso ospedaliero che intitola la quinta sezione rinvia a un altro illustre precedente, quella Serie ospedaliera che Amelia Rosselli aveva congedato dopo le Variazioni belliche. E sotto il travestimento dell’anagramma ritroviamo perfino Caproni, in un testo in cui si rievocano pomeriggi in biblioteca; così come in diverse chiuse, dal tratto più musicale, si avverte lo spirito di un altro degli auctores di questa costellazione, Sandro Penna.
Siamo davanti al compiacimento della citazione? Non credo, perché il gioco, volente o nolente, risulta assai scoperto, fin troppo per non indurci a credere a una necessità autentica. Non è un caso che queste poesie siano popolate di figure e fantasmi di padri e di madri, e che la poesia che dà il titolo all’intera raccolta sia dedicata proprio alla madre. È la madre che dà la lingua, ed è la lingua che Toni sente di aver preso in consegna, per poterla rimodellare, portare avanti nel tempo di una storia dove, forse, non si vorrebbe più posto per i poeti. Che sono e restano le creature più fanciullesche del nostro presente, e per questo le più «antiche». È questo l’aggettivo che più ricorre in questo nuovo lavoro di Toni e che ci pone di fronte a una coerenza davvero rara: quella a cui possiamo dare il nome di fedeltà.

Alberto Toni, Il dolore, Samuele Editore, e. 12

Accogliamoli i padri, i fondatori,
la loro giovane dismisura, la risorsa,
se libero è il disegno della storia.
Ma fugge la staffetta allo stacco dei nuovi,
si rinserra, si adunca in rivoli di terra,
dai dialetti, ai polsi proni dell’indifferenza
o soltanto per noia malcelata.
Sapessero che stare è riandare una volta,
più volte nell’addio
e dentro il dolore.
Non stanchi, né offesi
dalle umili origini.

venerdì 11 novembre 2016

Giorgio Caproni e gli altri








Qualche considerazione in margine al libro di Elisa Donzelli Giorgio Caproni e gli altri (Marsilio Editori). A partire dal titolo, che è sempre la porta d’ingresso di un’opera, in questo caso di uno studio denso e per molti aspetti avvincente. È un titolo particolare, perché ne richiama nell’immediato altri due: I libri degli altri di Italo Calvino, che ripercorre la storia dello scrittore che si è fatto editor, consulente, redattore per Einaudi delle scritture altrui; e, per quella congiunzione «e» che sta proprio al centro del titolo, e ne rappresenta il cuore, Passione e ideologia di Pasolini. Nel primo caso ci imbattiamo in uno degli auctores del nostro Novecento più coinvolto in operazioni editoriali a vario titolo; nei suoi interventi, nei suoi giudizi, avvertiamo il confronto e la tensione tra una personalità ben definita, con i suoi gusti e le sue idiosincrasie, e il suo modo di lavorare sulle opere degli altri. Gli altri, insomma, restano una costellazione esterna, che poco o nulla influisce sulla fisionomia dello scrittore-giudice. Nel secondo caso, invece, come aveva acutamente osservato Cesare Segre, quella «e» non è una semplice congiunzione, né si carica di un valore temporale («prima la passione e poi l’ideologia»), ma sta a indicare che le due, passione e ideologia, marciano di pari passo e si alimentano vicendevolmente.
Credo che questo sia il senso più autentico di questo titolo dove, solo in apparenza, Caproni (anzi, «Giorgio Caproni») è lì nel pieno della sua identità, nell’affermazione totale della sua onomastica, rispetto agli «altri». Perché di quel «Giorgio Caproni» gli «altri» fanno invece parte a pieno titolo, e questo è il significato autentico delle ricerche di Elisa Donzelli. Quella congiunzione non disgiunge, non separa, non identifica due mondi separati (la monade Caproni rispetto alle altre), ma inserisce opportunamente la storia, la vicenda di questa poesia all’interno di un sistema più vasto, di una rete di relazioni. Giorgio Caproni con gli altri.
Dunque, questo libro è anche una precisa indicazione di metodo: non è più possibile circoscrivere le grandi esperienze della letteratura contemporanea nell’asfittico circuito della nazionalità. Le relazioni con l’«altro» esistono, sussistono e restano ben vive anche dopo la morte di un autore, come questo libro, nella sua impostazione più che condivisibile, dimostra. Perché? Nella presentazione a Roma presso la Casa delle Letterature, Biancamaria Frabotta ha invocato una metafora assai suggestiva, e non nuova a una certa visione della prassi letteraria: l’applicazione, ai testi e alle letture che ne facciamo, del principio di indeterminazione di Heisenberg.  Mi ci ero imbattuto proprio a proposito di Calvino, ma qui la faccenda si fa ancora più interessante e coinvolge le dinamiche della ricezione delle opere. In breve, quel principio ci suggerisce che lo sguardo dell’osservante modifica l’osservato. Che vi sia una buona soggettività nella ricerca (anche in quella scientifica) è un dato di fatto su cui non occorre insistere; ma qui è proprio lo sguardo della studiosa che riaccende e vivifica per noi quella rete relazionale, mostrandocela in una prospettiva nuova, e direi pertinente, consustanziale.
Una prima osservazione riguarda proprio lo spostamento percettivo nei confronti di un panorama novecentesco, troppe volte storicizzato con fretta e approssimazione. Questo libro ci costringe infatti a ripensare, per tornare a Pasolini, a categorie come quelle di «Novecento» e «Anti-Novecento». Quando Pasolini le coniò, sapevamo bene a cosa si potessero riferire. Ma proprio quel principio di indeterminazione ci induce a un rovesciamento prospettico. Già, perché ciò che Elisa Donzelli non ha scritto, ma che si evince con chiarezza dalle sue pagine, e dalla precisa passione con cui le conduce, è che oggi la spina dorsale del nostro Novecento lirico non è più rappresentata dal coté ermetico, che gli «altri» - soprattutto la cultura francese e quella spagnola - li ha forse più assorbiti e subiti, piuttosto che confrontarsi con loro e agendo un’iperletterarietà dei linguaggi, per difendersi in autonomia dalla Bestia della Storia. Come invece hanno fatto, per vie diverse, Penna, che si smarca ben presto dagli «oscuri turiboli» di Baudelaire e Rimbaud; Bertolucci, che si apre alla grande poesia di lingua inglese, e appunto Caproni, che si trova a convergere con Sereni - un poeta che non a caso si è progressivamente allontanato dai suoi esordi ermetici - su un poeta indubbiamente complesso come Char; ma a patto di vedere in lui, nell’autore di Fogli d’Hypnos, un altro indubbio polo di tensione con cui confrontarsi costantemente, piuttosto che un maestro da emulare. In questo senso la traduzione di Char diventa una vera e propria mediazione culturale.

Veniamo subito a scoprire, grazie alle indagini d’archivio, che la Bestia non è solo un grande fantasma, una grande «metafora ossessiva», come si diceva un tempo, del Caproni più tardo, ma è fin dagli esordi il motore, l’anima di questi versi. L’idea complessiva, e sfaccettata, del male che percorre la storia degli uomini e inquieta la loro natura, è già qualcosa di più di una potente suggestione giovanile, mediata da una lettura di Pierre Jean Jouve. Insomma, la Bestia si sostanzia, ontologicamente, nel rapporto con l’altro, lo alimenta, nel senso che lo condiziona, e ne è a sua volta alimentata. Il fantasma diviene racconto, proprio nel senso leopardiano di narrazione in assenza, ovvero racconto del pensiero, nel pensiero: ovvero immaginazione, fictio. Non è forse Finzioni uno dei primi titoli di Caproni? Senza la sua assenza, senza la sua invisibilità e inafferrabilità, la Bestia non potrebbe porsi come il grande e vero agente antagonista di tutta la poesia di Caproni: non potrebbe essere raccontata. E che dovesse restare inafferrabile, rendendo la caccia infinita, è solo un corollario necessario. Il cacciatore è tale, e resta in azione, all’erta, solo finché la caccia può proseguire. È solo la morte –e in questo caso neppure lei – a interromperla. Elisa Donzelli ha ripreso quella caccia per noi.

venerdì 4 novembre 2016

AILANTO n. 36 - Su Narlan Matos





Il nome di Narlan Matos circolava già da tempo, in Italia, grazie all’opera di una rivista come «Fili d’Aquilone», particolarmente attenta alla poesia latino-americana: si sapeva delle sue raccolte e dei riconoscimenti ricevuti, che lo attestano tra le voci più promettenti del panorama internazionale. Mancava ancora, qui da noi, la traduzione organica di uno dei suoi libri, o l’allestimento di un’antologia che fornisse un’immagine esauriente di questo autore ancora giovane (classe 1975).
A questa mancanza rimedia oggi, ancora una volta, «Fili d’Aquilone», nella veste di casa editrice. Nella collana «I fili» possiamo finalmente leggere una scelta consistente dalle tre principali raccolte finora pubblicate da Matos, nella bella e partecipe traduzione di Giorgio Mobili, che firma anche la curatela dell’edizione. Ci imbattiamo così in un’ampia scelta da Senhoras e senhores. o amanhecer!, il libro d’esordio del 1996, e ancora da No acampamento  das sombras, con cui Matos ha ottenuto nel 2000 il Premio Xerox de Literatura Brasileira; infine dall’ultima raccolta, apparsa a una certa distanza dalle prime due, Elegia ao Novo Mundo (2012). Completano questo volume italiano alcuni inediti, dai quali è tratto il titolo complessivo: La provincia oscura.
Riprendendo alcune indicazioni del curatore, vorrei evidenziare l’apparente circolarità che percorre l’intera scrittura in versi di Matos. Mobili sottolinea giustamente la cesura tra le prime due raccolte, apparse a breve distanza tra loro, e segnate, ancora novecentescamente, dallo iato tra soggetto e mondo empirico, e la terza raccolta, che rappresenterebbe, agli occhi del traduttore, un ampliamento dello sguardo, un dilatamento della percezione verso la dimensione collettiva, o addirittura storica. È una lettura senz’altro condivisibile, così come è evidente, in questa anticipazione di inediti, il disincantato ripiegarsi del soggetto entro i limiti di una «provincia», per di più «oscura»: Eppure, proprio in questa sezione - che contribuisce a disegnare, per Mobili, una poesia «stereometrica» nel disegno dello spazio e, in qualche modo, nel suo tornare al punto d’avvio, pur carica e ricca delle esperienze attraversate e dei doni ricevuti -; proprio qui il Novecento dei maestri, a cui Matos guarda da sempre con sapiente e reverente attenzione, sembra infine sgretolarsi. Chiunque si attendesse un cupo isolamento, un solipsismo coatto, resterebbe deluso. Basterebbero i versi conclusivi a sconfessarlo: «fu là che imparai – soprattutto a non lasciarmi mai sfuggire / dalle mani l’irrefutabile uccello verde della speranza». Non è frequente, in poesia, quell’aggettivo, che nell’originale suona altrettanto straniante: «insofismável». Il lettore avvezzo alle negazioni e ai dubbi del secolo scorso non può che restarne sorpreso: Matos se ne serve per allestire una figura complessa, una metafora il cui primo termine fa da base a un’ipallage. Il senso profondo è così scolpito e lascia davvero un’apertura inedita, direi ontologica ancor prima che fenomenica: per il soggetto in sé, e per le nuove esperienze che ancora lo attendono. Ogni poesia di Matos è come un punto di fuga.
Dunque è vero, come scrive Mobili, che il poeta Ulisse fa ritorno a Itaca. Ma temo – o meglio, resto compiaciuto – che si tratti non tanto dell’isola omerica, quanto di quella agognata da Kavafis: ovvero un luogo che non si configura mai come meta certa, ma come autentico motore del viaggio che tutti siamo chiamati a compiere. È questa l’autentica stereometria. Di questo viaggio Matos, di libro in libro, sta scrivendo per noi la geografia esistenziale.

Narlan Matos, La provincia oscura, a cura di Giorgio Mobili, Edizioni Fili d’Aquilone, 2016, e. 15.00

Calendario
bisogna dimenticare marzo
perché finalmente arrivi aprile
sdraiarsi all’ombra di gennaio
perché l’abisso di giugno scompaia

di chi è questa faccia dietro l’edera?
lontano il chiaro di luna riposa lieve e bianco
sopra gigli di assenzio e chimera

resta ancora l’erba di settembre
                  e azalee del pomeriggio
                  e le latitudini del silenzio

non è la morte che cerco, amica
quando giungono le tue parole nella brezza
quando mi offri la frescura della tua pelle
e la Via Lattea all’improvviso rinasce calma
nelle rose silvestri del prato
o quando apri i petali immensi
del tuo sorriso bello e bianco (un giglio?)
per la notte della mia esistenza