Non
sono certo una novità, gli atteggiamenti apocalittici nelle tante, forse
eccessive discussioni che avvengono intorno alla poesia contemporanea. Quando
la mia generazione, quella dei nati negli anni Sessanta, cominciava timidamente
a mostrarsi, si avvertiva la necessità di confrontarsi, ma spazi e occasioni
erano allora piuttosto limitati. La scena era occupata a buon diritto dai padri
e dai fratelli maggiori; il dibattito era confinato negli scritti che si
andavano raccogliendo intorno a quelle figure, per lo più recensioni o ampi
servizi di qualche rotocalco, che miravano a fare il punto e a restituire un
po’ di visibilità. Neppure la nascita di una rivista “generalista” come
«Poesia» servì ad aprire nuove strade di riflessione, ma a rispecchiare parzialmente
lo stato dell’arte, come si dice. Sarebbe stata piuttosto la nuova ondata
avanguardistica a farsene carico, mentre nuove esperienze, come quella di
«Scarto minimo», restavano più in ombra (come, del resto, molta dell’attività
svolta dai poeti e dai critici che si affacciavano sulla scena letteraria tra
la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta).
Si
trattava di un silenzio imbarazzante, destinato però a durare poco e a
tramutarsi nel suo esatto contrario. L’avvento della rete avrebbe dotato la generazione
successiva di uno strumento formidabile, quanto infido; nel giro di pochi anni
nuovi piccoli editori e nuove riviste avrebbero occupato una dimensione fino ad
allora inimmaginabile, con una moltiplicazione a dismisura di libri e nomi.
Nonché di festival, premi, letture pubbliche. Per il critico diventava, di
fatto, una sfida impossibile a sostenersi. I luoghi del dibattito erano
divenuti, improvvisamente, troppi. Orientarsi in questo panorama così
labirintico o polveroso, a seconda della prospettiva, significava perdersi
dietro un’offerta sproporzionata, che incarnava però un bisogno e una reazione:
la conquista, in ogni caso e in ogni modo, di uno spazio creativo, perfino
ignorando la consistenza di un vero progetto; lo svuotamento, per ragioni
anagrafiche prima che culturali, di una società letteraria che fino a
quell’altezza aveva potuto esercitare un potere selettivo. Con nuovi strumenti
di diffusione, e senza più i filtri del passato, la strada era finalmente
libera. Ma per chi?
Furono
gli anni del moltiplicarsi delle antologie, e delle discussioni che seguirono:
proposte spesso lontane tra loro, al punto da contenere autori e testi
diversissimi e orientamenti inconciliabili. I criteri di scelta non sempre
adeguatamente motivati - neppure nelle operazioni che partivano da un intento
puramente tematico - o comunque poco condivisibili, talvolta ridotti a
un’improvvisata sociologia della letteratura o a prese di posizione ideologiche
fuori tempo massimo, hanno reso quella stagione, forse non ancora conclusa, una
grande occasione perduta. La vitalità di tutti questi fermenti ha finito per
incarnare, piuttosto che un’autentica necessità estetica, un problema di
identità. Nessun altro genere letterario, infatti, è andato incontro a una
simile sorte: non il teatro, non la narrativa e tanto meno la saggistica.
Nessun genere investe sull’io scrivente quanto la poesia (ma è chiaro che si
tratta di un errore prospettico); nessun genere ha mai sollevato di conseguenza
tanta agitazione e tanta energia polemica. Ne è venuta una confusione di ruoli,
se anche il critico ha potuto conquistarsi un’identità trasformandosi in
antologista; se la quantità delle offerte ha smarrito il lettore, disabituato
ormai al giudizio sereno e senza sufficienti orientamenti. Ne è venuta, paradossalmente,
una difficoltà comunicativa, un atteggiamento di sospetto da parte di alcuni
media, che si è tramutato in una presa di distanza, in una rimozione. Basta
confrontare le bibliografie sui poeti di venti o trent’anni fa con quelle
attuali: la maggior parte dei contributi è ospitata, non a caso, sul web.
Insomma,
è davvero felice questa esplosione di poesia o va invece letta in un’ottica non
più letteraria, ma di emergenza sociale? Il dibattito attuale su quali
fondamenti poggia, su quali presupposti? I legami con la tradizione sembrano
ormai sciolti, all’insegna di una libertà che confonde i piani della storia e
dell’espressione, con risoluzioni spesso anacronistiche: come se, di fatto, non sia mai esistita una storia
della poesia. Eppure tutto questo ha poco a che fare con una visione
apocalittica. Certo, la quantità può
diventare un problema e richiedere altre chiavi di lettura, ma la sfida resta
aperta, deve restare aperta. Ridurre un panorama, per quanto frammentario ma
comunque vivace, al grado zero della poesia significa ammettere una sorta di
snobistica impotenza, o incapacità. In questo senso l’apocalisse è davvero il
più feroce degli alibi: è l’atto di dismissione di ogni funzione critica. C’è
in questa visione qualcosa di necrofilo, o di vampiristico: il canto in morte
della poesia tiene vivi i cantori della morte, i quali non hanno nient’altro da
dire.
Un
amico artista che vive a Parigi, Alberto Sorbelli, mi ha ricordato qualcosa di
importante, a livello europeo: i soldi sono finiti. È un dato confortante, per
la poesia, per questo genere che è sempre rimasto fuori da ogni mercato. Se i
soldi sono finiti, la poesia ritornerà. Con buona pace degli apocalittici. E a
ben vedere, non se ne è mai andata.
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