martedì 7 giugno 2016

Per Franco Fortini

Pubblico una breve testimonianza su Fortini, che mi fu richiesta anni fa per la versione online de «L'ospite ingrato». La recente edizione delle poesie negli Oscar Mondadori, a cura di Luca Lenzini, in parte risolve certe mie riserve sulla cancellazione che questo poeta ha subito per lunghi anni dopo la sua morte. L'intellettuale è stato messo in primo piano rispetto all'artista, mentre non è possibile scindere le due figure; l'una non si motiva senza l'altra. L'Oscar restituisce l'interezza della  sua fisionomia, e c'è da augurarsi che Fortini torni a essere un maestro anche per la poesia che verrà: ciò che significa ripensare una possibile linea poetica, che piuttosto che guardare alla Francia, guarda alla Germania e al mondo anglofono. E a una tradizione nostra che non può essere rimossa o emarginata.



Dei poeti che si sentono vicini si fa spesso fatica a scrivere, perché le ragioni di quella vicinanza non vogliono, o non possono, essere chiarite del tutto. Elezioni e affinità, in poesia, seguono le regole ineffabili della stessa creatività. Ricordo infatti che a Fortini dedicai poche righe per una scheda su Composita solvantur, il suo libro-testamento, poi tornai nel silenzio che aveva preceduto quell’occasione. C’era in me come un imbarazzo, una sorta di pudore, in cui si traduceva un’adesione spontanea ai suoi versi. Non mi accadeva altrettanto con i suoi saggi, invece, che erano – e rimangono – una continua proposta di discussione e di messa a fuoco. Il maestro della polemica era anche un maestro della contraddizione e non sempre è  stato agevole seguirlo: Verifica dei poteri è un libro che inquieta per passione, profondità e acutezza, ma anche per quanto vi resta di irrisolto, di non “irreggimentabile”.
Ma c’era, per me, soprattutto la poesia. Ed è un segno della grande povertà di pensiero del nostro presente, l’assenza di Fortini poeta: un’assenza che ricade sui lettori più giovani, che entrando nelle nostre librerie discount non possono imbattersi nelle sue raccolte; un’assenza, infine, di cui l’aspetto editoriale o generazionale è solo l’estrema conseguenza rispetto a un movimento più ampio, e più triste: una damnatio memoriae che va a colpire una precisa opzione di scrittura, quella scrittura in grado di confrontarsi in maniera serrata con le criticità del presente, senza nulla risparmiare al lettore. Temo invece che si sia scelto di cristallizzare l’immagine di Fortini come quella di un “intellettuale”; ciò che sicuramente gli appartiene, ma che con altrettanta sicurezza non esaurisce la ricchezza umana e poetica del personaggio, e che rischia di rinchiudere la sua stessa poesia in un recinto ideologico troppo stretto. Accanto a quelli di Pasolini, le cui dimensioni espressive sono parimenti tutelate, e accanto al Sereni degli Strumenti umani, sento il bisogno dei versi di Poesia e errore e di Questo muro, senza i quali non sarebbe possibile comprendere la nostra modernità più tarda.
In quel coacervo di scritture che ancora oggi chiamiamo ermetiche, non senza qualche giustificata esitazione, Fortini subentra con una funzione dirompente, ampliando il quadro dei riferimenti e tornando a guardare alla lezione dei poeti di lingua tedesca. Non più una visione univoca verso ovest, versi i francesi, con i loro stanchi e intellettualistici retaggi orfico-simbolisti, ma  verso nord. È un tratto coerente, se nell’ultimo libro si ritrova la figura di Saba, che aveva saputo a sua volta volgersi a nord, verso Heine; ma in Fortini, in filigrana, si avverte che la poesia tedesca è solo un primo tramite verso una geografia ideale più vasta, e che nella chiarezza dei suoi versi agisce, come un sostrato fertilissimo, anche la lezione dei poeti inglesi, con il loro impulso a una narratività franca. Una franchezza che si traduce nello stile, una delle più illuminanti ossessioni di Fortini: il suo, piuttosto piano, qua e là interrotto da caute e discrete inversioni o deviazioni sintattiche, che non sono mai un tratto compiacente, ma che traducono invece la solennità del suo dolore di fronte alla Storia. Solennità, certo: ovvero capacità di distacco e astrazione, proiezione di un sentimento critico della realtà oltre la realtà stessa. Mi chiedo, oggi, come possiamo fare a meno di versi come «Noi ci troviamo in questo momento in corsa / in una lunghissima curva della pista: che è la pianura / di nebbia fetida, chioschi, conigli sbranati, fari. / Precipita la notte e incanta la regione». La regione o la ragione umana stessa, incantata da una notte mediatica che ancora non cede all’alba? Ecco, la funzione Fortini è in questa capacità, tutta moderna, di inventività allegorica, di estensione delle singole immagini a grandi affreschi che ci consentono, fuori del tempo, di comprendere il tempo. Per questo «essere vivi ci è caro». Ed è per questo che la sua poesia non riesce ad allontanarsi dal mio orizzonte più prossimo, come un monito e come un antidoto ancora efficace di fronte alle tentazioni solipsistiche o ai ripiegamenti elegiaci, come – e soprattutto – alle analogie da geroglifico che affliggono tanta facile scrittura odierna e che possono essere celebrate proprio e solo mettendo da parte, “una volta per sempre”, Fortini.

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