Il
nuovo Oscar di Maurizio Cucchi, che aggiorna l’opera omnia in versi al recente Malaspina, appare ottimamente curato da
Alberto Bertoni, che firma anche la lunga introduzione. In copertina troviamo
una foto in bianco e nero di Milano, risalente al febbraio del 1950. Ci
separano quasi settant’anni da quell’immagine, che più o meno viene a
coincidere con l’intera vita del poeta. Siamo a Corso Buenos Aires:
ci sono molti passanti nei loro cappotti, una grande edicola di giornali al
centro, i tram che passano, gli alberi spogli lungo i marciapiedi. Lo spazio
ontologico di questo poeta è anzitutto questo: una città-ragnatela, con le sue
circonvallazioni e i suoi canali (per quel che resta), al cui centro si colloca
una vicenda famigliare. Ha facile gioco Bertoni a inscrivere Cucchi in questa
piccola geografia, che è per l’appunto una topografia esistenziale: una “scuola
milanese” che parte da Parini e giunge fino a lui, a De Angelis, a Fiori,
all’interno di una più vasta cornice generazionale, chiusa tra gli estremi
anagrafici ancora di De Angelis, e più indietro, di Scalise (ma scenderei ancora un
poco, almeno fino a Zeichen e a Pecora) e dominata dal rapporto contrastato tra
scrittura e vita, tra Libro e Mondo («Libro/Mondo», scrive Bertoni, e quello
slash non può che essere inteso come una funzione critica).
Milano,
dunque. Una Milano spesso in bianco e nero, dominata dall’azione della memoria,
che qui allestisce una biografia tutt’altro che mitica, in atteggiamento
antileopardiano (forse qui sta uno dei nodi da sciogliere nei confronti della
“scuola romana”, per esempio). Cucchi scolpisce il suo spazio attraverso la
rievocazione del tempo, lo gestisce e lo illumina attraverso il tempo. Ed è
qui, credo, in questo rapporto tra spazio e tempo, tra memoria e luce, che si
viene ad aprire una dimensione davvero precipua. Se le poesie di Cucchi fossero
un film, potendole cogliere proprio come una sequenza di immagini in movimento,
allora l’autore non si limiterebbe a figurare come lo sceneggiatore o il
regista, ma sarebbe anzitutto il direttore della fotografia. Colui che sa come
modulare l’azione e gli effetti della luce, colui che costruisce attraverso una
particolare disposizione della luce: e questa accende proprio quelle
speciali sovrapposizioni tra tempo e
spazio, facendosi non solo un elemento fisico, ma anche mentale. In una
precedente stesura di Jeanne d’Arc
Cucchi l’aveva magistralmente definita come «luce del distacco». Luce quindi
non dell’epifania né della riappropriazione, ma al contrario, della
spoliazione, della separazione. Una luce molto antica, che spossessando
riconquista all’essere nuovi territori narrativi, e guadagna all’esperienza la
leggerezza del perdono.
Una
città, per quanto grande, rischia di divenire uno spazio claustrofobico, una
presenza, o anche soltanto uno scenario, ossessivi. Proprio giocando sugli
effetti di luce Cucchi riesce invece a moltiplicare questo spazio urbano. Il
poeta flâneur
che osserva quanto lo circonda non si limita a descrivere, ma sfonda quella
quinta della memoria dove passato e presente congiurano insieme per una
dimensione più ampia. Il tempo moltiplica lo spazio attraverso uno sguardo che
non è più soltanto empirico, ma affettivo. Ogni angolo di strada si tramuta in
un infinito minimale, ogni incontro si amplifica, ogni apparizione moltiplica
al suo interno ciò che la fisica potrebbe facilmente circoscrivere. In questo
senso Cucchi può tranquillamente affermare, come uomo e artista, di non avere
mancato la propria vita, consegnandola a quella complessità percettiva che ha nella
scuola fenomenologica milanese un punto di riferimento certo.
Maurizio Cucchi, Poesie 1963-2015, a cura di A. Bertoni, Mondadori 2016, e. 13.00.
«Ho
le caviglie troppo gonfie
ma
non è questo dolce amico gentile
che
parlandomi ti trasfiguri e piangi.
Cammino
verso l’impossibile e se il dolore
talvolta
mi confonde credimi
non ho
mancato la mia vita.»