Raggiungo
finalmente Frascati in un pomeriggio freddo di fine novembre, dopo aver
superato gli incagli del traffico, e già preoccupato di arrivare in ritardo.
L’appuntamento è importante: dovrò incontrare gli studenti che hanno letto e
discusso il mio libro Solstizio, e
che dovranno votarlo per la finale del Premio Antonio Seccareccia. Non è tanto
l’esito di quella votazione a tenermi in ansia, quanto il fatto di dover
dialogare con loro, rispondere a tutte le loro domande. Le domande dei giovani
non si possono eludere, e non è mai garantito che siamo in grado di rispondere
a tutte, che sappiamo in fin dei conti farlo. Le loro attese superano le
nostre, che hanno già conosciuto battaglie e disincanti; il loro modo di
leggere il mondo è assoluto, ma in questo ancora ci somigliano. Chiederanno
come ho cominciato, quando, dove; cosa significa per me fare poesia; cosa
significa farlo oggi, nel nostro confuso presente. Ma dovrò ricordargli, e
ricordare a me stesso, che ogni presente è confuso, e che a volte neppure la
coperta del tempo è abbastanza lunga da coprire le nostre disillusioni o da
proteggere le nostre speranze e le nostre verità.
Entro
in una vasta sala delle Scuderie Aldobrandini, sotto un’alta capriata;
in cima alle scale mi viene incontro, ironico come sempre, Aldo Nove, che mi
rimprovera bonariamente il ritardo e mi annuncia ridendo l’esclusione dalla
terna dei finalisti. Poco oltre Alberto Toni scoppia in una gran risata. Ci
conosciamo da molti anni, seguiamo il nostro reciproco lavoro: più che una
competizione mi sembra una rimpatriata tra vecchi amici. Il clima cordiale però
non stempera la mia ansia e davanti a me si apre una platea piena di studenti e
insegnanti. Mi accoglie Andrea Caterini, che modererà l’incontro, anche lui
visibilmente in difficoltà; già, perché su quelle sedie stanno anche bambini
delle elementari, e la loro presenza rende l’impresa ancora più difficile.
Dovrò insistere sul massimo di sincerità, non nascondere loro proprio nulla.
E
infatti, puntuale, arriva la domanda. Che senso ha la poesia, come ci difende
dall’aggressione della realtà. Recito una battuta consueta, per me: se mai la
poesia dovesse servire a qualcosa, serve a non diventare servi. Non è solo un
gioco di parole, che comunque cattura la loro curiosità; devo infatti insistere
e dimostrare che la poesia, che è esattezza, precisione, sintesi, tiene sempre
alto e vigile il livello della nostra coscienza. Al termine dell’incontro, Rita
Seccareccia mi viene incontro e mi dona una ristampa delle poesie del padre.
Apro a caso, e trovo una risposta anche per me: «Son passati degli anni con
niente, / e nessuno sapeva più nulla / d’un piccolo seme gettato / per caso,
per giuoco alla terra».
Devo
averli convinti. Il pomeriggio seguente Arnaldo Colasanti mi annuncia la
vittoria del premio.
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