Giorgio Orelli apparteneva a
quella speciale stirpe di autori novecenteschi, per i quali la pubblicazione di
un libro non coincideva con un problema d’identità, ma con l’aspirazione a
produrre un’opera da affidare alla durata. La sua è stata una presenza piuttosto
discreta nelle vicende della poesia italiana del secolo scorso: in parte perché
Orelli era ticinese, in parte (e credo sia la parte più evidente) per un senso
particolare della misura, che ha condiviso con tutti i maggiori poeti, da
Montale a Ungaretti, da Sereni a Penna. Sfogliando l’Oscar mondadoriano, non
corposo come altri, recentemente apparso per le cure di Pietro De Marchi, ci
accorgiamo subito che la bibliografia di Orelli appare piuttosto scarna. Nel
corso della sua lunga vita (era nato nel ’21, si è spento nel novembre di due
anni fa) contiamo quattro raccolte principali, sempre apparse a notevole
distanza tra loro: L’ora del tempo
del 1962, che chiudeva in qualche modo la sua prima stagione; Sinopie, del 1977; Spiracoli, del 1989; infine, presso Garzanti, Il collo dell’anitra nel 2001.
Orelli appartiene anche a
un’altra tradizione, che la nostra letteratura condivide certamente con gli altri
modelli europei: siamo di fronte a un poeta colto. Le sue indagini su autori
fondamentali delle nostre origini, come Dante e Petrarca, fino a quelle su
Pascoli, Montale, nonché la sua attività di traduttore, in grado di misurarsi
agilmente con le liriche di Goethe, hanno fatto di lui una figura di
frequentatore della poesia a tutto tondo; e se è vero che i confini tra i
generi, nel corso della modernità, tendono a farsi sempre più labili, si dovrà
constatare come e quanto le
diverse forme della scrittura abbiano dialogato a fondo, in Orelli, lasciando
tracce evidenti anche nella sua ricerca lirica. Non solo sul piano di una
possibile intertestualità con quegli autori studiati, ma anche, direi, per
quanto concerne toni e registri, allusioni e citazioni. Non è sempre facile
imbattersi in lui, specie a partire da Sinopie,
il libro in cui il dettato orelliano, pur mostrando una certa continuità,
inizia a farsi più complesso, talvolta più cifrato e sintetico.
La sintesi, nel senso anche della
brevità e della concisione, è un suo tratto caratteristico. Assai di rado
c’imbattiamo in componimenti che travalicano la pagina per consegnarsi a quella
successiva. Da questo punto di vista Orelli si pone in parallelo con altri
compagni di strada, come Erba o Risi, ma sempre conservando una propria fisionomia rispetto alla cosiddetta linea
lombarda. L’Oscar è arricchito da una sezione di testi sparsi e inediti, che
avrebbero dovuto comporre un’ultima raccolta, dal titolo L’orlo della vita, e da una scelta delle traduzioni, a riprova che
questa pratica non rappresenta mai per un autore un territorio a sé, ma
appartiene di diritto alla propria ricerca in versi. Ancora una citazione
dantesca occupa quello che sarebbe stato l’ultimo titolo di Orelli, se la morte
non avesse interrotto l’allestimento di una raccolta che gli strumenti della
filologia ci consentono di leggere, ma in una forma sempre approssimativa
rispetto a quella che gli avrebbe conferito il poeta: le sue carte, i suoi
quaderni, sono stati trovati sulla sua scrivania, ma la compiutezza era ancora
lontana. Una situazione simile a quella di Res amissa di Caproni, dunque; e siamo grati al curatore per aver comunque
condiviso questi testi, che indipendentemente dal loro ordine, contribuiscono a
restituirci una più compiuta immagine di Giorgio Orelli.
Giorgio Orelli, Tutte le poesie,
a cura di Pietro De Marchi, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo,
bibliografia di Pietro Montorfani, Mondadori 2015, e. 22.00
Nel giardino di casa, con
sospetta
complicità di ortensie
è raggiante il bambino che mangia
il fiore di magnolia,
mentre un altro contempla una
lucertola
che non scappa, protesa sul bordo
del marciapiede come in ascolto,
e non osa toccarla, quasi
incredulo
della morte;
e in poca terra pedala pedala
un terzo, che al saluto
mi dice: «Questa qui
è la bici del mio fratello,
quand’ero grande me la regalava».
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