Due premesse
necessarie. La prima riguarda il mio ambito di riferimento, ovvero quello della
traduzione di poesia: che per me, come per tutti i cosiddetti operatori del
settore, rappresenta un dominio caratterizzato da ulteriori problemi
rispetto a quelli della traduzione tout
court. Premetto ancora che il mio rapporto con le letterature d’oltralpe e
d’oltre-oceano, anzitutto le culture anglofone e quella francese, non è di tipo
tecnico o specialistico, ciò che è anche ostacolato, qualora non rispondesse a
una scelta personale, da una conoscenza perlopiù letteraria di quelle lingue.
Del resto più di un traduttore d’eccezione, basti ricordare lo stesso Pavese,
riteneva che una conoscenza linguistica così delimitata, costringendo anche
solo sul piano della verifica lessicale a un uso costante del dizionario,
consente di evitare taluni clamorosi misunderstanding
in cui invece può incappare il traduttore professionista, più padrone della
lingua da cui traduce ed eccessivamente sicuro della propria competenza.
Non essendo
dunque un traduttore di professione e non avendo mai avuto coi miei editori un
rapporto in tal senso, ho potuto muovermi con quella libertà estrema che la
modernità letteraria ci ha consegnato nella scelta dei nostri autori, dei
nostri modelli, insomma del nostro privatissimo canone. Il mio percorso di
traduttore, pertanto, è inevitabilmente in gran parte lo specchio del mio
percorso di formazione. Intendo dire che misurarsi non solo con l’immaginario,
con l’universo espressivo di autori lontani mi ha decisamente aiutato a
forgiare il mio immaginario e il mio universo espressivo, ma che il corpo a
corpo agonistico con la loro lingua è stato un elemento fondativo per la
conquista della mia lingua poetica, ovvero, come direbbe Calvino, per la
fondazione del mio stile.
Lawrence Venuti,
nel suo testo fondamentale L’invisibilità
del traduttore, riprendendo categorie già elaborate in età romantica,
discute a proposito di domestication e
foreignization (che solo approssimativamente potremmo
rendere con addomesticamento ed estraniamento) come dei due poli entro cui si
contiene la dinamica del processo traduttivo, o, come dice Friedmar Apel, il
movimento del linguaggio, lo Sprachwebegung.
Insisterei sul fatto che questi due poli non sono due estremi assoluti ma due
entità dialettiche, destinate talora a incrociarsi e a sovrapporsi. Nello
spazio di queste intersezioni si è svolto il mio apprendistato letterario e va
da sé che questo processo non si è mai concluso e mai si concluderà. Se è vero,
come credo, quel che sostiene Valéry, ovvero che una traduzione è un percorso
infinito, destinato a non chiudersi mai, questo vale anche per la nostra
ricerca, per la nostra quest, per il
nostro irrinunciabile miraggio alla piena espressività. La traduzione è uno di
quei domini che costantemente ci testimoniano di come e quanto siamo sempre «in
cammino verso il linguaggio» e non a caso Heidegger è tornato più volte sulla
questione. Lo stesso Venuti, che viene alla storia e alla teoria della
traduzione da una vasta esperienza di traduttore professionista, ricorda con
Goethe e Pound che ogni estraniazione non è un semplice fenomeno di
riconoscimento di differenze culturali, ma che tali differenze si stabiliscono
solo all’interno della lingua d’arrivo. Posso ricorrere subito a un esempio
dalla mia officina personale. Molti anni fa, traducendo una poesia di un poeta
irlandese che ho molto amato e che purtroppo non ha avuto in Italia la fortuna
che meriterebbe, Michael Hartnett - scomparso poco dopo il nostro incontro per
una di quelle cause di cui spesso soffrono gli irlandesi – mi imbattei in un
testo scritto in gaelico che inizia con una dedica: «do Mhícheál Ó Charmaic,
file». La mia esperienza, in quel caso, fu condizionata dal ricorso obbligato a
una media traduzione in inglese, da cui a mia volta ho pouto ricavare il testo
in italiano.
Non c’è bisogno di scomodare Genette per ammettere che quella dedica è parte
integrante del testo poetico e che probabilmente il riferimento, nella
personale ottica biografica, rappresenta un incremento sul piano dei
significati, che a noi, non conoscendo il destinatario, restano in parte
preclusi. L’esempio è interessante perché attesta di un duplice estraniamento,
un po’ quello che succede con certi idioletti di Auden, quando scrive “ideola”,
termine del tutto privato e occasionale, incomprensibile al di fuori del
contesto in cui è stato forgiato. Insomma, l’estraniamento copre due versanti
linguistici, uno intrinseco (della lingua d’arrivo verso se stessa) e uno
estrinseco (della lingua d’arrivo verso la lingua di partenza), ovvero la
ricezione e la resa in un’altra lingua. Ciò che Venuti ammette è che
l’intervento del traduttore nel riconoscere le differenze si problematizza solo
nella lingua in cui si traduce. Come rendere, infatti, quel «file», posato lì
tra il gaelico e lo slang antico? Un epiteto già gergale, che nell’inglese
veniva reso con «cunning», non senza uno slittamento semantico inevitabile, e
comunque senza un vero corrispettivo italiano che non fosse attinto, con un
processo di estraniamento, a un registro anch’esso gergale? Certo, la
tradizione letteraria offre una soluzione plausibile e attestata con «volpone»,
ma il termine risulta desueto e perde indubbiamente qualcosa della sua
efficacia. L’estraniamento estrinseco agisce coerentemente in chiave gergale,
con il prezzo di fuoriuscire dal registro standard per adattarsi a un termine
non sempre comprensibile al di fuori del suo ristretto territorio d’uso, ovvero
«lenza»: «per quella lenza di Mhícheál Ó Charmaic».
Vorrei ora
richiamare un altro caso, in cui i due tipi di estraniamento provocano un
curioso cortocircuito culturale. Nel corso del 1997 un piccolo stampatore della
provincia toscana mi chiese di tradurre una scelta delle poesie di Stevenson
per un’edizione a tiratura limitata. Non erano mancati fior di traduttori allo
Stevenson poeta, a partire da Roberto Mussapi, ma l’insistenza fu tale che
decisi di accettare la sfida. Compiuta la scelta, perlopiù su testi brevi e non
eccessivamente complessi, considerata la destinazione editoriale, mi accorsi
che all’interno dell’opera di Stevenson ero riuscito a ritagliare una piccola
enclave tutto sommato coerente, sia dal punto di vista stilistico che da quello
tematico. È questo che intendo quando mi accade di affermare che sono i testi a
venirci incontro e a imporsi alla nostra attenzione e non il contrario; le
nostre ossessioni si traducono, è il caso di dirlo, in una evidente empatia.
Conservo ancora qualche copia di quel libretto, da cui traggo due brevi saggi
di poesie d’amore:
Guarda, leggo nei tuoi occhi
sinceri
L’auspicio che ci guiderà
Dopo lungo vagare in mari aperti
A quieti porti nel riposo di
giugno.
Canti con voce da uccello di
terra
Per prima udita dal lupo di mare;
e come rada sicura nel mare della
vita
il tuo cuore sincero è in me.
*
Nella splendida, verde primavera,
amore e pensai di suonare la lira
e dolci baci prendere e dare
accanto al biancospino in fiore.
Ora è l’autunno rugginoso,
morte e la tomba e il triste
inverno,
e qui devo meditare in disparte
mentre batte la pioggia sul
tetto.
Cosa accade in
queste poesie, o meglio a queste poesie? Portando Stevenson, il suo verso così
prosaico, nella mia lingua, evitando le coppie di ripetizioni che spesso si
affacciano, forse con un certo gusto latineggiante, nella poesia inglese (ne è
pieno anche un signor poeta come Hardy, che nessuno finora si è azzardato a tradurre per intero), mi sono accorto
di aver omologato le immagini dell’inglese a un ritmo che era tutto mio. Quando
Mussapi ebbe occasione di leggere le mie versioni, si congratulò del risultato,
facendomi notare che avevo passato Stevenson al filtro di Baudelaire. Aveva
colto nel segno. Il processo di addomesticamento, nel conflitto dialettico con
quello di estraniamento, aveva prodotto sì una lingua unitaria e una catena di
stilemi coerenti, ma il sapore ottocentesco, tardo-romantico, era passato
sull’altra riva della Manica. C’è una motivazione, per questo, non solo di
ordine personale, di imposizione della propria lingua e dei propri ritmi:
quando Apel sostiene che la traduzione è una forma storica, ci dice anche e
soprattutto che in essa si rende visibile storicamente il processo
dell’esperienza estetica dell’opera tradotta, ciò che vale sia sul piano
individuale che su quello collettivo. E se il modello di riferimento, per molta
parte della poesia italana primonovecentesca, è stato quello del simbolismo e
del postsimbolismo d’area franco-belga, era inevitabile che un certo sapore
baudelairiano s’insinuasse nel mio lavoro, complice la memoria letteraria di
chi mi aveva preceduto.
A volte i luoghi
comuni, se resistono all’usura della lingua e del tempo, con buona pace di
Wittgenstein, si impongono con la
loro dose di verità. Che la poesia sia intraducibile è per me un dato di fatto,
e quindi preferisco parlare con Jakobson, piuttosto che di traduzione tout-court, di creative transposition, ciò che rende meglio, a mio giudizio, la
dinamicità stessa del tradurre poesia, sin in senso sincronico (un traduttore
che passa la vita a riscrivere le stesse versioni) sia diacronico (il
rinnovarsi del problema ad ogni sensibile mutazione del modello culturale, se
la traduzione è anzitutto una forma della comprensione).
L’impossibilità
non implica però la rinuncia; al contrario la scommessa è sempre aperta, come i
risultati. L’immagine che più mi fa pensare all’attività del traduttore di
poesia, o del poeta che si mette a tradurre un altro poeta, è quella di una persona che costruisce
una gabbia per le nuvole, che cerca di chiudere in una forma plausibile ciò che
la materia poetica nega, ovvero che possa sussistere una forma perfettamente
analoga a quella di partenza. Riconoscendo che la traduzione è un atto dinamico
che restituisce il movimento tra due sponde linguistiche, non facciamo che
confermare la mia metafora: le nuvole sono di una sostanza che non può essere
ingabbiata. Come le immagini del tempo, l’acqua e la sabbia, scorrono tra le
dita.
La mia gabbia
per nuvole più durevole è stata costruita per il poeta che più mi ha preso per
mano, per un lungo periodo del mio apprendistato. Se si vuole comprendere cosa
non funziona nella poesia, diceva Pound, ci si deve misurare con un minore (ma
forse era Eliot, potrei confondermi); io avevo bisogno di confrontarmi con un
autore che potesse offrirmi una gamma vastissima di soluzioni. Credo proprio
che con Auden sono andato a colpo sicuro. Lentamente, con tutta la pazienza
possibile. E soprattutto con quell’umiltà che richiede ogni accostamento a un
grande. Ho scavato nel suo verso con l’insistenza di una goccia, pur cosciente
che quelle misure erano in gran parte estranee a quelle della mia tradizione,
anzi, la saltavano per attingere semmai a quelle della classicità. Così, scelta
nella scelta, la mia attenzione è caduta sui Sonetti dalla Cina, e sulle poesie e sul lungo Commentario che fanno da contorno a quella serie. Ho iniziato nel
1989 e non ho mai finito. Ne ho pubblicato negli anni varie traduzioni, sono
tornato a correggere e a limare, a volte spaventosamente arretrando al punto di
partenza, con la sensazione di aver camminato in un labirinto di specchi
deformanti. Per questo su Auden, sul poeta più amato, non sono mai riuscito a
scrivere nulla. Il bisogno era mutato nel tempo, dovevo trovare il coraggio di
affrancarmi, di abbandonarlo, di compiere la mia uccisione simbolica nei
confronti di un modello divenuto così ingombrante. A dispetto di Valéry, ma con
la consapevolezza che la ragione sta tutta dalla sua parte, ho messo il punto e
oggi le mie versioni dei Sonnets from
China rappresentano la parte più cospicua del mio approssimativo e
personale manuale di scrittura poetica: non un quaderno di traduzioni e neppure
di più sfumate imitazioni, ma, per l’appunto, le gabbie per le mie nuvole.
Testi disposti tematicamente, in sezioni, con l’indicazione dell’autore in
calce, senza l’originale a fronte. Una materia indomabile, eppure mia: il
risultato, ancora una volta, di un parallelo disporsi di addomesticamento ed
estraniamento. Ecco un esempio, il sonetto XV:
Si levò a sera l’oppressione del
giorno.
Vennero a fuoco alte cime, era
piovuto.
Si spinsero tra i prati e le
aiuole
I conversari dei più alti
esperti.
I giardinieri ne stimavano le
scarpe;
Attendeva leggendo un autista
Che finisse lo scambio di vedute.
Pareva un quadro di vita ideale.
Lontano e al di là delle
intenzioni,
Due armate atendevano un errore
Per dare pene con appositi
ordigni.
Dall’esito dell’incanto dipese
Un deserto di giovani ammazzati,
Di donne in pianto e città nel
terrore.
Vorrei infine
rovesciare la prospettiva, essendomi accaduto di essere tradotto in più lingue
da riviste anche autorevoli e in modo del tutto inatteso, perdipiù nelle due
lingue che più frequento. I risultati sono molto diversi: certamente la natura
romanza del francese asseconda la ritmicità e la resa fonosemantica, mentre con
l’inglese le cose sembrano essersi complicate al punto da provocare un radicale
mutamento nella struttura del testo. Non è casuale, temo, che entrambi i
traduttori, Justin Vitiello per l’inglese americano, e Philippe Di Meo per il
francese, vantino origini italiane: la diffusione della poesia contemporanea
italiana è spesso affidata a questi caronte della lingua che hanno un legame
storico e affettivo con le loro radici (penso anche al caso di Jonathan
Galassi). Il loro lavoro, indubbiamente meritorio, ha dunque una ragione che
non potremmo non considerare “politica”, di ricongiungimento con il loro
modello culturale e di diffusione dei suoi contenuti.
Parto dal
francese, dal testo d’avvio di una suite che fa da apertura al mio libro
riepilogativo del lavoro tra l’86 e il ’96. Sono cinque versi che in italiano
suonano così:
Non potrò restituirmi
la trama d’una mattina svogliata,
la grana della pioggia ottobrina.
Sei vita che non si concede
intera e sai di non mentire.
Nel testo di Di
Meo il processo di addomesticamento è evidentissimo: provocato non solo da
necessità grammaticali, ma perfino da reminiscenze che, ancora una volta,
rinviano con una certa evidenza a Baudelaire, al punto che mi è venuto un
sospetto, dopo l’esperienza con Stevenson: ovvero che Le fleurs du mal costituiscano la struttura profonda del mio
orecchio poetico, del formarsi del mio stesso ritmo. Questa la versione
francese:
Je ne puorrai puor moi restituer
la trame d’une matinée
désoeuvrée,
l’ennui de la pluie d’octobre.
Tu es la vie qui ne se donne pas
Entière et tu sais que tu ne mens
pas.
Risalta
immediatamente che, pur lasciando la versificazione libera nelle sue
variazioni, Di Meo stabilisce un forte legame fonico-semantico, attraverso la
rima, del tutto assente nel mio testo, legando i primi due versi (restituer-désoeuvrée) e gli ultimi due
con la rima identica (pas-pas). Lo
slittamento del significato, che pure sembra letterale, è fortissimo, se si
pensa che la «grana» della pioggia è stata tradotto con «ennui», ovvero con la
noia, col tedio che sembrano per antonomasia accompagnare l’immagine stessa
della pioggia, laddove, nel mio testo, il riferimento era alla grana sottile di
una pioggia leggera. Ma «restituer:désoeuvrée», con «ennui», costruiscono una
vera e propria isotopia negativa alla quale, in verità, non avevo pensato, o
che non avevo coscientemente rappresentato. Questa negatività è rafforzata
dalla rima identica finale («pas:pas»), che sembra non lasciare alcuno spazio
d’azione: nel mio testo invece la corrente dei «non», a cominciare da quello
d’avvio, pur lasciando presentire la negatività, la risolveva nella verità
sostanziale del tempo che passa (l’acqua, scrive Brodskij, è l’immagine del
tempo) e nel suo passare non mente, adorabile ovvietà della nostra finitudine.
Quel «désoeuvrée», tra «restituer» ed «ennui», conferisce al testo un andamento
davvero baudelairiano, ma chissà se questo ennesimo specchio deformante non
sia, in realtà, una fotografia autentica di qualcosa che era anche nella mia
scrittura.
Vengo infine al
lavoro di Justin Vitiello. Il testo è tratto dalla mia seconda raccolta, Libro naturale, del 1999 e si intitola Facile. È una poesia d’amore, il cui
titolo ancora rinvia all’ovvietà della nostra condizione umana.:
Mio amore, questo è l’ultimo
treno
Fra i tanti che abbiamo visto
passare:
Gli scambi riposeranno fino a
domani.
E io sento altri rumori, la
notte,
Il battito difforme di una corsa
Lungo binari senza ferro e travi.
È qualcuno che porta la mia vita
Sulle sue spalle, ma non mi
somiglia.
Aggirerà cento semafori spenti,
Pensiline come isole deserte,
Altoparlanti di nessuna partenza
Da annunciare. Perché questo
È l’ultimo treno, amore mio,
E nessuno verrà a dirti ciò che
manca
Ai nostri giorni insieme.
Vitiello la
traduce così:
My love, this is the last train
of all those we’ve watched go by:
the switches rest till morning.
And I hear other noises, night,
the disparate beats of a hurtling
on tracks with no rails or ties.
It’s someone who totes my life
on the back but
bears me no resemblance.
That fatigue crosses the seasons,
I feel it but
It bears me no resemblance.
It will run one hundred burnt-out
signals,
platforms like deserted islands,
intercoms without departures
to announce.
Because
this is
the last train, my love,
and no one will come tell you
what’s missing
in the transit of our days
together.
Fino al sesto
verso la traduzione è letterale, ma Vitiello riscrive il testo a partire dal
settimo: anzi, ne inserisce tre che non sono mia scrittura. Così facendo
enfatizza il tema della mancata somiglianza tra il soggetto lirico e il suo
doppio, ripetendola in una terzina inserita per l’occasione ed evidenziando
ancora una volta l’altro tema, quello onnipresente dello scorrere del tempo: «that
fatigue crosses the seasons».
È indubbiamente
un’interpretazione, un’aggiunta di note che non ha alcun intento migliorativo o
peggiorativo, ma che, per l’appunto, si autoinveste di un ruolo fortemente
tematico. Infatti, dopo questo inserto, con la sola eccezione di un verso “a
scaletta”, Vitiello riprende a tradurre pressoché alla lettera, senza alcuna
particolare invenzione. Perché quel «bears me no resemblance», un tema fra gli
altri, diventa così centrale nella ricezione del traduttore italo-americano?
Credo di aver già dato la risposta.
Bibliografia
F. Apel, Il movimento del linguaggio. Un ricerca sul
problema del tradurre, a cura di E. Mattioli e R. Novello, Milano, Marcos y
Marcos, 1997.
W.H. Auden, Collected Shorter Poems, London, Faber
& Faber, 1966.
R. Deidier, Una stagione continua. 1986-1996,
Ancona, peQuod, 2002.
R. Deidier, Gabbie per nuvole, Roma, Empirìa, 2011.
Ph. Di Meo, Poésies
italiennes, II, «La Nouvelle Revue Française», 584, Janvier 2008.
M. Hartnett, Seminando, Milano, Crocetti, 1995.
R.L. Stevenson, Chirurgo celeste e altre poesie, a cura
di R. Deidier, Pistoia, Via del Vento, 1997.
L. Venuti, L’invisibilità del traduttore. Una storia
della traduzione, trad. di M. Guglielmi, Roma, Armando, 1999.
J. Vitiello, Four Poems by Roberto Deidier, «World
Literature Today», 2 (71), Spring 1997.
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