giovedì 7 maggio 2015

AILANTO n. 17 - Su Francesco Scarabicchi




Sostiene Lawrence Venuti, uno dei maggiori teorici della traduzione letteraria, che quando a tradurre un poeta si appresta un altro poeta, le sue scelte ricadranno nell’ambito di un processo straniante, che tenga cioè in maggior conto aspetti e caratteri dell’originale rispetto a quelli della lingua d’arrivo e del suo sistema culturale. In realtà le dinamiche si fanno molto più complesse, perché ciò che accade tra autori, anche diversi nello spazio e nel tempo, risponde perlopiù a una sorta di “prestito” della lingua, di una lingua poetica che risulta costruita, codificata anche da parte di chi traduce. Certamente il divario tra scelte stranianti e scelte addomesticanti (ovvero il criterio che tiene più in conto la lingua di chi traduce) si attenua, o quanto meno oscilla, quando siamo in presenza di contatti tra sistemi linguistici vicini, derivanti dallo stesso ceppo. È quanto si verifica, ad esempio, tra lo spagnolo di Machado e di Lorca e l’italiano di Francesco Scarabicchi; contrariamente la diversità e la distanza costringono a scelte ben più difficili e radicali, specie se quello che vogliamo ottenere in italiano è un testo poetico e non una vaga fotocopia in traduttese dell’originale.
Questo è il primo punto: non si tratta semplicemente di un contatto tra due lingue prossime parlate e scritte da una parte all’altra del Mediterraneo, ma di sistemi espressivi, insomma di stili che rispondono a determinate officine poetiche. La libertà dei moderni è stata anzitutto quella di svincolarsi dai canoni e da un’idea monolitica della tradizione, scegliendo liberamente i propri autori, maestri o compagni di strada, eleggendoli in qualche modo, e in qualche caso, a vere e proprie ossessioni. È il caso di questo libro, un quaderno di traduzioni che si limita per l’appunto ai due autori spagnoli, feticci che hanno accompagnato il percorso di formazione di Scarabicchi, la sua gioventù poetica come la sua bella maturità. Il risultato è davvero di un equilibrio raro, sia per le singole scelte, sia per la totalità dell’operazione; il lettore avverte chiaramente la presenza di Machado e Lorca nel verso di Scarabicchi a fronte, sente la “cura” (nel senso latino di amore e studio insieme) con cui il poeta si rapporta con i due modelli; sente, in definitiva, che ciò che gli si pone sotto lo sguardo è un processo di simbiosi, in cui il “prestito” a cui alludevo si è svolto secondo una tensione dialettica chiara e sempre percepibile, e che nessuna scelta è stata effettuata fuoriuscendo da quell’equilibrio. Il traduttore non si è sovrapposto agli originali, gli originali non hanno sovracondizionato il traduttore.
C’è, dietro questa empatia, un percorso di accoglimento di una somiglianza o piuttosto di una diversità? Se penso a certe prove di Scarabicchi, come Il viale d’inverno, non riesco a non riconoscere una delicatezza e un’allure di malinconia che in realtà permeano tutta la scrittura di questo poeta; e allora il rapporto con Machado, soprattutto, mi sembra che si sia instaurato come attraverso l’individuazione di una voce maestra, mentre il controcanto gitano di Lorca  ha portato, in queste versioni come nel mondo poetico di Scarabicchi, quelle venature di energica freschezza che talora si lasciano cogliere pur nella dolcezza dell’elegia.

Antonio Machado, Federico García Lorca, Non domandarmi nulla, versioni di Francesco Scarabicchi, Marcos y Marcos 2015, e. 17.00.

da Lorca, Dopo il passaggio

I bambini guardano
un punto lontano.

I lumi si spengono.
Alcune ragazze cieche
domandano alla luna,
e nell’aria salgono
spirali di pianto.

Le montagne guardano
un punto lontano.

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