Credo che il primo problema
rappresentato dalla poesia di Jorie Graham, per il lettore italiano, sia quello
di una sostanziale alterità rispetto ai modi della nostra tradizione lirica,
alla sua musicalità intrinseca, alla disposizione al canto, a una capacità
introspettiva che cerca di assumere un piglio diaristico o comunque narrativo,
anche attraverso minime sequenze. Con Place,
abilmente tradotto da Antonella Francini sotto la supervisione dell’autrice,
Graham torna a disattendere la nostra ricezione forse un po’ abitudinaria,
invitandoci a entrare nella complessità di una scrittura che ama spesso tornare
su se stessa, riavvolgersi nella corrente di pensiero che la sostiene; una
scrittura dove il verso lungo, tipico della poesia americana, si addensa
improvvisamente in misure più brevi, concentratissime, per cui le immagini
possono come implodere proprio mentre si dispiegano, e poi lasciare il campo a
quelle successive. Sembra di assistere alla mimesi di un movimento a onde, di
ritornare, pur nella concentrazione della poesia, a quella forma già
sperimentata da Virginia Woolf; anzi, l’impressione che la risacca delle
immagini poteva provocare in quel libro mirabile, qui diviene sostanza stessa
di questo versificare per noi così imprevisto e arduo.
Ma Jorie Graham non concede nulla
al lettore tiepido che si assesta intorno alle proprie certezze, a
quell’assenza di sorprese che ogni tanto segna i panorami poetici di una
nazione. Chiede, invece, un surplus di attenzione e di partecipazione,
costringendoci a tornare sulle sue volute, sulle sue densità, a leggere e a
rileggere fin quando, improvvisamente, alcuni nuclei tematici cominciano a
emergere in mezzo ai flutti. Continuo a usare il moto marino come possibile
metafora critica, ma è lo stesso Place
ad autorizzarmi, pieno com’è di tali immagini, alluse o dirette: il mare come
immenso serbatoio primigenio, come luogo dell’informale, come accoglienza o
come antagonismo parla attraverso questi lunghi testi, consentendoci comunque
di riavviare un discorso sulla ciclicità e sul divenire, che con ogni
probabilità la poesia europea ha interrotto dopo Valéry, Eliot, Montale. Perché
molte delle immagini di questo libro convergono decisamente verso un grumo,
direi quasi un archetipo che ci riconduce all’alba stessa della grande poesia
moderna: ovvero il tema dell’anteriorità, di ciò che Vico e Leopardi potevano
declinare come rapporto mitico, schietto e primitivo (nel significato più alto
e ampio) con la natura e con le sue espressioni, e dentro la cornice di un
linguaggio comune, condiviso. Baudelaire chiamerà questo tema la vie antérieure: una zona difesa da un
margine preciso, da un confine che sta al di qua della lingua e al di là della
cultura che la supporta. Un luogo delle origini.
Place è uno di quei titoli semanticamente assoluti, accanto ai
quali non è possibile accostare nulla. Anche la traduzione italiana, che gli
affianca una determinazione («Il posto») sconta l’impossibilità di rendere un
concetto chiuso dentro le parentesi di un’epoché: il «dove», il «lì» che è
anche un «qui», l’ubi consistam
declinato a quel passato remotissimo, che solo le pareti scoscese della memoria
e dell’affettività – i soli vettori in grado di farci trascendere il presente e
di proiettarci nel nostro place –
possono farci intuire. E questo, forse, spiega anche il continuo ricorrere di
Jorie Graham a storie e vicende famigliari, solo apparentemente circoscritte, e
destinate invece ad assecondare il moto ondivago del pensiero.
Jorie Graham, Il posto, trad. di Antonella Francini,
Mondadori 2014, e. 18.00
Da Cagnes sur Mer 1950
[…] Così qui, io di nuovo
rileggo il libro del tempo,
il mio unico tempo, come se ci fosse un
fatale errore la cui
natura non so rintracciare – o la forma
– o l’origine –
prendo la creatura e la riporto
nel posto dove io sono un minuscolo
serbatoio di sangue, cinque chili d’ossa
e tendini e altre cose – già condannata
a quest’unica anima –
che dicono pesi meno d’una piuma, o
tanto
quanto un centinaio di grammi quando
cresce – come in un viaggio ripercorro
quelle arterie, il prezioso liquido, il
campo di metodi, agonie,
stupori – che io non sprechi gli stupori
–
che non uccida per errore fratello,
sorella – mi
siederò con audacia una volta ancora sul
mio inizio,
macchia scura dove una storia non diventa
ancora un’altra,
e parole, non giunte a me ancora, ancora
non proveranno a dirmi
da dove vengono le cose, né dove vanno,
dove risplenderà il flusso
dell’inclinazione
nella sua veloce discesa.
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