Se la memoria non m’inganna, era dai tempi di Wilcock che un poeta italiano mancava di misurarsi apertamente con Wittgenstein. E se lo scrittore di origine argentina si era soffermato soprattutto sui «luoghi comuni» del nostro linguaggio e del nostro modello culturale, oggi Mario Santagostini, con il suo recente Il libro della lettera arrivata, e mai partita ci consegna una densa raccolta di testi in cui rielabora il concetto stesso di «gioco linguistico». A dispetto della conclamata impotenza del linguaggio a restituire e reinventare la complessità del reale, vero e proprio leitmotiv della modernità, specie novecentesca, questa volta il poeta sposta la problematicità del concetto su un versante che potremmo definire, senza troppo allontanarci dal vero, relativistico, proprio con riferimento alla fisica. Queste nuove poesie, nel loro insieme, se da una parte rinviano di frequente a un «qui» che sembra ammantarsi di concretezza (il presente da cui Santagostini scrive? Il tavolo al quale lavora? Il foglio su cui getta i semi delle sue poesie?), dall’altra rappresentano una profonda oscillazione del tempo e dello spazio. I rimandi al passato sono incessanti, percorrono l’intero volume con riferimenti sempre precisi; si tratta di un passato remoto, che precede la vita stessa dell’autore o in qualche modo la prepara, l’anticipa, o, sempre nel remoto, l’autore rievoca momenti soprattutto degli anni Sessanta e Settanta, quelli della sua giovinezza. Non è una rievocazione nostalgica, ma di tutt’altra specie. Accade infatti, in questi versi, una dislocazione che ci mette incessantemente in dubbio; la vita si moltiplica, proietta, rifrange in tutte le sue possibili «varianti» (e tali sono molti di questi testi nell’economia del libro), tra l’accaduto, il non accaduto, l’eventuale. I personaggi rievocati, a partire dal soggetto, vanno e soprattutto tornano, o mancano di arrivare, al «qui» che resta il solo denominatore spazio-temporale.
Accanto a Wittgenstein, infatti, l’altro nume tutelare è Kafka. Non tanto il Kafka del mostruoso e del grottesco, ma quello che meglio ha saputo rappresentare, più che l’ineffabilità, la prismaticità del reale: ciò che rinvia, nell’immediato, a una visione caleidoscopica, dove le immagini si presentano senza una precisa origine e senza una vera traiettoria. In questo modo sembra che funzioni per Santagostini la memoria, «maceria, dove non si cammina», in questi incessanti camouflages tra ieri e oggi. Nella sua estrema summa relativistica, il soggetto stesso fatica a tenersi insieme, si duplica per infinite rifrazioni, finisce inevitabilmente col sovrapporsi alle figure che la memoria richiama da un passato vissuto o non vissuto, da una strada percorsa o non percorsa, «perduta o non perduta». È questa «l’opera ancora nascosta» che la lingua è in grado di tessere, forse soltanto accennandola nei versi, per rinviarla a qualcosa che ancora deve manifestarsi. Dunque, anche la scrittura si fa vettore relativistico, tra accenni di «realismo magico», diffrazioni, derive contingentiste, in una dimensione plurima da cui, come sui buchi neri o sui misteri del cosmo, si aprono improvvise «finestre» su ciò che è stato o non è stato o avrebbe potuto essere. Compreso il legame filiale, corrente tutt’altro che sotterranea che interessa l’intero volume: ogni qual volta il tempo viene chiamato in causa, e in prospettive così determinate e inquietanti, quel rapporto rappresenta la più profonda tensione che anima e agita la lingua.
Ci parla, di questo tendersi tra continuo e discontinuo, anche il ritmo di questo libro: ora scritto in versi, ora in prose che talvolta alludono al poemetto, altre volte si limitano a mimarlo, in una incessante anamorfosi che spiazza il lettore e con l’assoluto rigore, a cui questo poeta ci ha abituato, lo pone nel mezzo di un vortice interrogativo, forse invitandolo a guardare alle cose della vita da un centro che non è più tale, da un silenzio che ancora ci attende.
Mario Santagostini, Il libro della lettera arrivata, e mai partita, Garzanti 2022, e. 20,00.
A se stesso, anni fa
Stasera, cammini sul corso.
E consideri tutta la gente che vedi
o vedrai come
gente perduta, e ritrovata.
Poi, che quando hai amato qualcuno,
era la seconda volta.
E tornava, chi se ne era andato.
E un giorno, forse,
avrai più di una vita da lasciare.
Ma una, da ricordare.
E avrai più ore, di quelle che hai passato.
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