Si svolgerà ad Anzio, nei prossimi 13 e 14 dicembre, un bel con legno su Dante e la classicità tardo-antica.
Ci sarò anch'io per la relazione di chiusura. Grazie agli organizzatori per l'invito!
Si svolgerà ad Anzio, nei prossimi 13 e 14 dicembre, un bel con legno su Dante e la classicità tardo-antica.
Ci sarò anch'io per la relazione di chiusura. Grazie agli organizzatori per l'invito!
Vorrei segnalare due recenti iniziative editoriali che riguardano Poe. La prima è una biografia, a firma di Teresa Campi, studiosa del primo Ottocento inglese e americano e autrice, tra l’altro, di un fortunato volume sulla presenza a Roma di poeti come Keats, Shelley, Byron; la seconda una traduzione delle poesie di Poe, a cura di Raffaela Fazio. La biografia si intitola La vera storia di Edgar Allan Poe ed è stata pubblicata da Odoya lo scorso anno, ma ha potuto circolare solo da pochi mesi; la seconda, Nevermore. Poesie di un Altrove, si avvale di una postfazione di Leonardo Guzzo ed è edita da Marco Saya.
Inizio dalla biografia, che a mio parere ha diversi pregi. A partire dall’essersi lanciata in un’operazione rischiosa, non solo per il personaggio, ma soprattutto per le incrostazioni, le numerose patine che lo hanno ricoperto; quindi per ragioni più interne al genere e alla scrittura, perché a parte memoires personali e autobiografiche, vite più o meno fittizie e mitizzate, quello della biografia vera e propria non è un compito così scontato per la tradizione italiana. Certo, ve ne sono tante di ambito accademico, che spesso si riducono a un elenco di fonti e documenti; ciò che manca alla biografia italiana è proprio il senso e la misura della scrittura. Non tutte le vite, poi, sono così interessanti o gloriose, ma il punto non è il materiale biografico: è proprio la scrittura, una scrittura che deve ricostruire qualcosa di accaduto, ma ponendolo nella prospettiva storica più corretta, quindi renderlo interessante. A volte anche il dettaglio minimo può esserlo. Allora sorprende che Teresa Campi abbia davvero lavorato in questa direzione, sottraendosi sia alle pastoie dell’accademismo sia al romanzesco più pettegolo. Sorprende, ma fino a un certo punto; da studiosa delle tradizioni inglese e americana, da sempre – fin dal tempo della sua formazione – ha potuto frequentare quegli autori che riconosciamo universalmente come maestri nell’arte della biografia.
In caso di incrostazioni e sedimentazioni improprie, una biografia deve correggere il tiro. Ancor più nel caso di un personaggio “difficile” come Poe. Dunque Teresa Campi ha sceglie di intitolare il suo lavoro La vera storia, per poi dover ammettere con assoluta correttezza, in una breve avvertenza al lettore, che «vuole solo restituire qualche verità». Questa precisazione non è banale né occasionale, ma rivela piuttosto una conoscenza approfondita delle scritture biografiche, dei loro limiti e delle loro difficoltà. A cominciare da quella che è la verità del percorso esistenziale di ciascuno di noi, e anco più di uno scrittore: un percorso di simulazioni e dissimulazioni. L’autrice ne è perfettamente cosciente: «l’immaginazione corre», scrive, mentre ci introduce nella stanza dove la madre del poeta sta morendo. Elizabeth è un’attrice e la stessa camera, rossa come il sangue che la tubercolosi le fa gettare, è come un piccolo sipario dietro il quale Edgar e Rosalie, sua sorella, assistono a un dramma che ancora non sanno definire nella sua tragica verità. Rappresentazione e realtà si scambiano fin da ora le parti.
Questa osmosi tra realtà e rappresentazione percorre tutta la vita invero rocambolesca di Poe e di conseguenza questa biografia. È ciò a cui ho accennato e che non posso non chiamare col suo nome: il romanzesco, ovvero ciò che al di là delle carte e delle fonti e degli eventi comprovati, spesso in tante biografie manca affinché tutti questi elementi finalmente parlino nel tono giusto, in una cornice di narrabilità. La vita è teatro, contempera in sé la finzione. In questo discrimine è possibile, è lecito, ricostruendo, inventare. Che non vuol dire affatto favoleggiare: inventio viene da invenire, che ha come primo significato trovare, ovvero imbattersi a caso in qualcosa o in qualcuno. In ogni autentico lavoro di ricerca il margine di casualità è sempre elevato: il caso, qui, ha voluto che l’autrice s’imbattesse in un documento raro, inedito. Si tratta dei primi due fogli autografi di una lettera in parte pubblicata e nota agli studiosi di Poe. È quanto, il 29 agosto 1849, tre anni prima della morte, Poe scriveva a Muddy, la zia-madre di Baltimora, punto costante di riferimento e anche di quel minimo di solidità famigliare. Sono pagine struggenti, in cui si riassume il senso di disperazione di un’intera vita, segnata solo in brevissimi istanti da labili successi. Il cuore è a pezzi, Poe descrive stati di solitudine, povertà, fallimento. È un bilancio desolante; le sole speranze per il futuro sono affidate al matrimonio con la benestante Elmira, non alle proprie forze o risorse. Il discorso si sposta sempre più sul piano economico, fin nei dettagli; ne viene, neppure troppo in filigrana e nonostante la cospicua occasione, la coscienza del fallimento, che coinvolge noi lettori in considerazioni anche di più ampio raggio rispetto alle alterne fortune di Poe e alle difficoltà di ricezione della sua narrativa, al suo personale deragliare verso l’alcol, ma che riguardano piuttosto la condizione sociale del letterato nella prima metà dell’Ottocento nel Mondo Nuovo. È una situazione che in parte muterà nella seconda metà del secolo, se si pensa alle sorti di Twain o di Melville, cresciuti in ambienti borghesi più abbienti. Il punto dolente, quanto a Poe, credo sia proprio la ricezione, questione su cui giustamente Teresa Campi si sofferma spesso e che coinvolge la stessa postumità di Poe, se uno scrittore come William Faulkner poteva affermare che proprio Twain si potesse considerare come il primo vero scrittore dell’Ottocento americano. Non so quanto il giudizio riguardasse il merito delle rispettive opere, o altre considerazioni di natura socio-culturale; resta il fatto che a distanza di decenni Poe abbia faticato ad affermarsi in un modello dominato da spinte economiche e dal puritanesimo. Gran parte della sua fortuna di scrittore, ancora oggi, è dovuta come sappiamo alla ricezione europea della sua opera e alla fondamentale mediazione di Baudelaire, assolutamente in sintonia, nelle sue ricerche poetiche, con il mondo lugubre, noir, gotico, fantastico di Poe. Non c’è biografia, infatti, che non si colleghi a un contesto storico-culturale, ciò che l’autrice si preoccupa sempre di restituirci nella sua vivezza e nella sua realtà, spesso oscillante tra morbosa ammirazione, stima genuina, più spesso rifiuto o repulsione.
Credo che il merito maggiore di Teresa Campi stia, in questo lavoro da cui trasuda tutta la sua passione, proprio nell’aver problematizzato un nodo centrale, forse il nodo centrale del problema Poe in riferimento al suo tempo, e di averlo fatto non solo con gli strumenti dell’analisi letteraria, ma con quelli della ricostruzione biografica. Il nodo è questo: quanto del “teatrismo” materno, finanche in questa morte romanzata, abbia poi condotto lo scrittore verso una prospettiva borderline, non in senso psicologico ma percettivo della realtà. Ciò che emerge con una certa chiarezza ed evidenza, in questo libro, è l’estrema fluidità di questa vita, tra aspirazioni, blandi successi, opportunità negate, costruzione e direi anche autodistruzione. È una fluidità che Poe trasmette per intero nei suoi racconti, che ci affascinano ancora proprio per questa ambientazione di soglia, di passaggio fluido, magistralmente inavvertito, tra una dimensione concreta e una più fantastica. Ma ogni riga di Teresa Campi ci aiuta ulteriormente a riflettere come queste categorie stiano strette a Poe: tutto in lui è fluidità (generi, tipi della narrazione, passaggi di situazione), tranne che di forma. Eppure un’osmosi c’è, e forte: non è possibile guardare al narratore senza gettare, contemporaneamente, uno sguardo al poeta.
In questa direzione ci viene in soccorso la traduzione di Raffaela Fazio. La sua operazione è pienamente condivisibile: si opta per una versione isometrica e profondamente musicale. L’attenzione al ritmo (Fazio è anche poeta in proprio) è il dato primario, accanto al rispetto di alcuni termini che vengono alla luce come veri e propri indizi, in un tracciato lirico che resta, nel complesso, fisico e mentale insieme. Questa duplicità dimensionale è còlta e direi particolarmente seguita durante tutto il lavoro di traduzione. E se la forma (come in tutti gli autori che sembrerebbero negarla) resta una questione imprescindibile, il lavoro di Raffaela Fazio è ancor più meritorio, avendo tenuto in conto proprio quel «tracciato armonico», come lei stessa riconosce, che è alla base del verso di Poe. Nel complesso è un’operazione felice, oltre che una scommessa davvero ardua. La resa italiana, infatti, si svincola dal traduttese di servizio per approdare a una compiutezza autonoma; insomma, abbiamo un Poe poeta nella nostra lingua. Qualche necessità di «addomesticamento», in questo tipo di impostazione, doveva pur imporsi. Ma è inevitabile. Con buona pace dei traduttologi che ritengono più attenta alla lingua di partenza l’azione di un poeta che ne traduce un altro, in realtà c’è sempre una reinvenzione, un sovrapporsi di officine. L’importante, per Fazio, è conservare il più possibile la forma originale, e per farlo non esita ad accogliere alcune soluzioni assenti nel testo di partenza ma coerenti con esso. Un rapido esempio dalla prima poesia, Gli spiriti dei morti: l’originale, negli ultimi due versi, recita «How it hangs upon the trees, / A mystery of mysteries!». Per rispettare la rima finale, almeno in consonanza, Fazio concepisce una variazione, che ci restituisce comunque l’immagine senza deformarla. Scrive dunque, e noi l’accogliamo, «Come incombe sospesa sulle fronde, / mistero tra i misteri più profondi!». Accanto alla biografia, abbiamo quindi la possibilità di ripercorrere l’intero tracciato esistenziale ed espressivo di Poe, nel duplice binario tra poesia e prosa.
Vi segnalo l'uscita del nuovo libro di Fabrizio Cavallaro, I silenzi, per Archilibri, per ora acquistabile sul sito dell'editore. Posto qui la prefazione che ho scritto per le sue poesie.
Più si guarda agli oggetti della letteratura – versi, prose, drammaturgie – dal punto di vista dei temi, più si prende consapevolezza del fatto che ogni immagine tematica, ogni motivo, a sua volta ci indirizza verso un contenitore più ampio, ragion per cui un tema può diventare motivo di una rete che lo ingloba, come in un sistema di scatole cinesi o di matrioske. E mentre ci spingiamo avanti, con l’ostinazione dei lettori che pretendono di andare in fondo a ogni questione, ci renderemo sempre più conto che le nostre matrioske, alla fine di questo percorso un po’ perverso, sono quattro, come i punti cardinali, come gli estremi di una rosa dei venti: amore, morte, guerra e viaggio. Dalle origini della nostra tradizione letteraria, fin dalle grandi costruzioni poematiche che l’hanno originata e nutrita, le cose sono andate così. E non sono andate diversamente neppure se ci affacciamo su altre tradizioni, che abbiano o meno dialogato o interagito con noi: noi occidentali, intendo.
Se ancora, in questo infinito processo à rebours, decidessimo di stringere la visuale su quelle quattro gigantesche bambole di legno, ci accorgeremmo che i loro colori non sono poi così diversi; come nella rosa dei venti, i quattro estremi si vengono incontro, nel senso che, inevitabilmente, tendono uno verso l’altro. Prima che da tramontana arriviamo a levante, ci imbatteremo nel grecale; e nel compiere il giro, avremo doppiato molti più promontori e attraversato molte più correnti di quanti potevamo attenderci. Insomma, quelle matrioske sono un po’ come il vaso di Pandora: contengono davvero di tutto, nel bene e ancor più nel male che agita, dal profondo, le trame in cui ci imbattiamo e il desiderio di noi lettori: il desiderio che ci conduce dritti verso l’epilogo, qualunque esso sia, a qualsiasi evento o reazione ci prepari.
Amore è il punto cardinale da cui prendono avvio i versi di Fabrizio Cavallaro. Eppure è evidente fin dal principio, senza neppure dover avanzare di troppi testi, che anche lui deve aver necessariamente superato molti fra promontori e correnti, esponendosi anche a venti contrari. C’è qualcosa di più di un sentore di guerra, nelle sue immagini che rispecchiano altrettante esperienze, nei suoi bozzetti di incontri urbani, che rinviano a piccoli, ma quanto intricati viaggi della mente e del corpo. Del resto, Eros è il più infido dei soldati: è un tiratore infallibile, un cecchino sempre pronto a porci di fronte alle nostre debolezze, a ricordarci la nostra caducità. Perché, dietro i suoi colpi, o mentre ci sentiamo trafitti, inevitabilmente avvertiamo la presenza di Thanatos, ora farmaco, più spesso memoria di quanto l’amore ci sottrae, ogni volta avviando una metamorfosi irreversibile. Quando Eros raggiunge il suo scopo, non saremo mai più gli stessi; una chimica delle pulsioni smuove e rimodella l’intera tavola dei sentimenti, degli stati d’animo, delle disponibilità e delle ritrosie.
Non è un caso che l’altro versante lungo il quale Cavallaro esercita la sua creatività sia quello della fotografia: le sue poesie sono il fermo immagine dei suoi incontri, di stagione in stagione. Appuntamenti, conoscenze fortuite, apparizioni improvvise o abboccamenti più o meno mercenari, tutto è fedelmente riprodotto da una poesia-obiettivo, che cerca, riuscendovi, di conservare la materia dell’evento. In questo, credo, sta la distanza dal grande, irraggiungibile modello che ogni tanto fa capolino dai suoi versi, ora come un fanciullo dispettoso, ora come un ospite inquietante: mi riferisco a Penna, a quel geniale astrattista del desiderio capace di cristallizzare per sempre i suoi ragazzi in un’aura numinosa, un po’ apollinea e un po’ dionisiaca, quel tanto di sapiente miscela tragica che ci rammenti, via Leopardi, l’ineffabilità del desiderio autentico. Perciò posso supporre che Cavallaro intitoli queste poesie al silenzio; eppure si tratta di un silenzio carico di concretezza, con la giusta dose di sensualità vissuta e narrata perché la sua malinconia risulti infine più prossima a Kavafis che non a Penna.
Non c’è solo questo, ovviamente: Eros, portato a termine il suo compito, lascia tracce visibilissime, non solo sulla pelle. La gamma degli umori è piuttosto ampia, in questo libro, nei versi che in un solo richiamo rimico modulano dolcezza e rabbia, afflato e delusione, vicinanza e lontananza. Dunque le matrioske sono state tutte aperte, esplorate, fino all’ultima, minuscola bambola che lascia l’autore – e noi con lui – davanti a sé stesso, senza più attese, senza più sorprese. Il periplo dei territori di Afrodite è stato compiuto, l’intera rosa (altro simbolo d’amore) è stata doppiata. Senza troppi rischi di naufragi, di incaute esposizioni, di cicatrici lente a chiudersi. È un navigatore esperto, che sa bene il pericolo di porsi sullo stesso piano del suo oggetto. Cavallaro si misura con i suoi amori – qui sta l’altra differenza da Penna – con la consapevolezza della maturità, il solo antidoto, sebbene parziale, ai veleni del suo ferocissimo antagonista; osserva la gioventù senza mai lasciarsi coinvolgere nell’effimero e nell’illusorio, gioca la sua partita con l’esperienza degli anni. Anche per questo, ogni testo è un racconto a sé, una breve sequenza di immagini che si apre e si chiude nello spazio di un clic, per fare posto ad altre partite, ad altre immagini, nella coazione del desiderio; o forse, non meno drammaticamente, nell’addomesticamento di una solitudine che Eros può soltanto agitare, senza mai davvero scalfirla.
Sabato 30 ottobre sarò a Fondi a parlare di Libero De Libero, in occasione della XXVII edizione del Premio intitolato al poeta. Che quest'anno, "alla carriera", mi verrà assegnato. Grazie al Comune di Fondi, alla giuria, agli organizzatori.
Dal 22 al 24 prossimi, Comiso ospita "Stazione di poesia", una manifestazione organizzata da Giuseppe Digiacomo e Salvatore Schembari. Grazia Calanna ha organizzato per "All'altro capo" una presentazione in compagnia di giovani poeti siciliani. Grazie !
È online il numero di ottobre di «Fare Voci», che si pare con una mia intervista rilasciata a Giovanni Fierro a proposito di All'altro capo. Questo il link:
https://farevoci.beniculturali.it/
Ringrazio Giovanni Fierro per le sue parole e per i pensieri che hanno generato.
Sabato 25 settembre sarò a Castelvetro di Modena per parlare di All'altro capo con Alberto Bertoni. Saranno presentati anche i libri di Stefano Simoncelli e di Elisa Donzelli.
Grazie ad Alberto e a Roberto Galaverni per avermi voluto con loro.
È online il programma di Pordenonelegge 2021.
Domenica 19 settembre, alle 17.00, insieme a Carlo Carabba saremo presentati da Massimo Gezzi alla Libreria della Poesia, Palazzo Gregoris.
Grazie agli organizzatori Alberto Garlini, Valentina Gasparet, Gian Mario Villalta.
Il programma completo su www.pordenonelegge.it
Nella collana di Poesia dell’editore Donzelli, diretta da Elisa Donzelli (ricordo il suo recente Album per Nottetempo), è appena apparso un libro di Franco Loi. Devo subito dire che non si tratta di una raccolta postuma, disposta dallo stesso poeta o allestita da un curatore; non si tratta neppure di un’antologia. Il titolo, Vòltess («Vòltati») mi ha ricordato di cosa poteva trattarsi. Nel 2003, a Palermo, mi trovai coinvolto nell’organizzare un evento per la Giornata mondiale della poesia. Chiesi all’amico Umberto Fiori di partecipare e lui accettò volentieri, proponendomi di esibirsi con Tommaso Leddi (si ricomponeva così una parte degli Stormy Six, uno dei gruppi di punta del rock progressivo italiano); insieme avrebbero eseguito e cantato dei brani su testi proprio di Loi. Quel progetto, che comprende ben dodici canzoni («come uno zodiaco», scrive Leddi nella postfazione al volume) si intitolava, per l’appunto, Vòltess.
Il libro che oggi ho tra le mani riproduce, arricchito di un bel cd, quel progetto. Vi ritrovo i dodici brani, con testi variamente presi dalle varie raccolte pubblicate da Loi in vita. Musica di Leddi, voce di Fiori: un connubio felice e ben collaudato, che esalta la forza espressionistica della poesia di Loi, rappresentando un capitolo del tutto nuovo nella storia della canzone milanese: Leddi stesso rievoca la presenza di Nanni Svampa a una delle loro esibizioni, in cui lamentava la carenza di scurrilità, com’è della tradizione lombarda. Non è certo questa la corda primaria nei versi di Loi: Leddi e Fiori hanno lavorato insieme, da profondi conoscitori del poeta, e possedendo anzitutto gli strumenti della musica e della poesia, sui temi portanti di quell’opera poetica. Vòltess è dunque un collage, dove a volte i testi sono mescidati tra loro, proprio privilegiando il versante tematico; il lettore ne rintraccerà facilmente le fonti nella nota conclusiva. Nella bella, partecipe introduzione, Fiori rievoca alcune di queste linee centrali, ispirate da una certa visionarietà espressa in una «lingua fraterna», secondo una definizione di Brevini, bastarda e inventata, ricca di impennate foniche e non certo facile a tradursi sul pentagramma; ma la scommessa è stata senz’altro vinta. Più che al volume, che riproduce i testi rielaborati, nella traduzione non di Loi ma dello stesso Fiori, bisogna prestare attenzione al cd, meritoriamente allegato dall’editore, perché è lì che il senso di tutta l’operazione può finalmente palesarsi. E, soprattutto per chi non è lombardo o non ha affinità con quei dialetti, è possibile ascoltare il suono di una lingua poetica tra le più incisive del nostro secondo Novecento.
I temi sono quelli a cui il lettore di Loi è ben avvezzo: storia, memoria, nostalgia, viaggio (in questo caso in treno, come nella seconda canzone). Insieme vengono a comporre una sorta di sistema, richiamandosi l’un l’altro nella ricostruzione di una densa cartografia esistenziale che dal privato guarda sempre al collettivo, alla ricerca (il cercare è un altro termine chiave di Loi) di una significazione più ampia, sempre più ampia (cercare «più in là»), com’è della grande poesia radicata al sentire e tesa al reinventare la realtà, anche nel colloquio con una divinità che nessuna ragione può identificare e circoscrivere; ma la religiosità di Loi sarebbe già un capitolo a parte che Vòltess si limita ad accennare, suggestionando l’ascoltatore e invitandolo a rileggere questo poeta straordinario. Scelgo una poesia in cui non è difficile riconoscere gli «hollow men» di Eliot, o «gli uomini che non si voltano» di Montale. Non so quanto del loro afflato metafisico pervada la poesia di Loi; mi piace piuttosto rimarcare, in lui, una concretezza e una matericità di cui il ricorso al dialetto è immediato segnale.
Franco Loi, Vòltess. Poesie musicate da Tommaso Leddi per la voce di Umberto Fiori, con cd allegato, Donzelli 2021, e. 19,00.
Sono sordi, sono ciechi
È difficile parlare con un popolo di morti,
che io tendo l’orecchio e loro non ci sono più.
Sono sordi, sono ciechi, e la loro lingua è storpia.
Fredda memoria, colore dei tempi andati…
Milano fatta di idrossido, ululare di macchine.
Strade vuote dove gli uomini, ciechi, non sanno più trovarsi.
Segnalo un convegno molto ricco che si terrà online nei giorni 25-27 agosto. Il mio intervento è previsto per il 27 alle ore 14,20. Ringrazio gli atenei che hanno sostenuto e promosso il progetto e tutti i colleghi che lo hanno seguito, dandogli forma. Troverete il programma completo sul sito della MOD, la Società italiana per lo studio della modernità letteraria (www.modlet.it).
Misurare il tempo vuol dire conoscerlo veramente? Saperne la direzione inesorabile rappresenta già un esorcismo contro la morte? In Linea intera, linea spezzata, il suo ultimo libro edito nello Specchio mondadoriano, Milo De Angelis converte le immagini tradizionali del tempo come vettore in una dimensione di silenzio e di annullamento; le stesse categorie di “intero” e di “spezzato” sembrano messe in discussione, in una sorta di geometria esistenziale a cui manca inevitabilmente un punto di origine, la prospettiva in cui incorniciare la presenza di un trauma e di un dolore, che aleggiano sul quotidiano senza il peso concreto della loro genesi, ma pervadendo ogni cosa. È così che il «tutto» (il termine forse a maggiore ricorrenza nella raccolta), il “grande tutto” di matrice biblica può tramutarsi nel «grande niente» che emerge da questo scavo notturno del soggetto nelle sue peregrinazioni ad ora insolita, mettendolo ancora una volta di fronte alla grande antagonista.
Se le cose stessero semplicemente così, ci saremmo imbattuti in una dichiarazione di explicit, di cupio dissolvi in un tempo anagrafico segnato dalla stanchezza; eppure quella stessa stanchezza, che è il risultato di un lungo confronto agonistico, più che alla discesa verso la morte lascia pensare a una sconfitta, a un arrendersi all’assenza di quel punto originario che più si mette a fuoco e più si sottrae, consumando energie vitali, indispensabili, e insieme nutrendo di senso tutto l’arco di un’esistenza, dalle memorie adolescenziali fino agli eventi più prossimi. La spinta del ricordo nutre tutte queste nuove poesie di De Angelis, che recano la chiara matrice mnestica di una rievocazione di ombre; ma queste non appaiono in un possibile catalogo di destini, piuttosto intervengono a definire l’identità stessa del soggetto che le ha richiamate da un passato indistinto, che solo qualche dettaglio minimale può – e non sempre – aiutarci a riconoscere.
Tra l’«oceano dell’infanzia» e il «cimitero della tua stanza» si stende tutta questa palude autobiografica, senza un confine preciso, «tra un nulla e l’altro nulla»; ciò che rende anche il presente un teatro di spettri e miraggi, dove in uno scenario urbano e suburbano perfettamente coerente con i paesaggi a cui De Angelis ha abituato i suoi lettori, la notte diviene la quinta necessaria al manifestarsi di ombre e memorie, consentendo pericolosamente al silenzio di dilatarsi fino a invadere il margine stesso di dicibilità della parola, il suo scolpire la sconfitta. Ne trapela, qui e là, un sentimento di vergogna, che si assimila, in sede di poetica, a quel tipico procedere per baluginii e frammenti che da sempre segna la scrittura di questo poeta, ancora saldamente collocato in quel solco della modernità dove la visione del tutto diventa accecamento, ferita: «L’intero ti fa sanguinare». Così, nel culmine di questo vagare notturno, di questo viaggio senza meta, appare un’ombra non così singolare tra quelle che compongono la costellazione di autori a cui De Angelis ama riferirsi: quella di Gottfried Benn, a ricordarci il sussurro di «una parola / prossima al nulla».
Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata, Mondadori 2021, e. 16.00
Bon dodo
Bon dodo, bon dodo, bon dodo, ti dicevano
alle nove di sera ma non potevi
dormire e troppo forte risuonavano le campane
nel cimitero della tua stanza e tu hai imparato subito
che i morti non restano fermi, entrano nel sonno
di ogni bambino oh quanta terra sparsa sul cuscino
quanti baci di puro spavento, quanta neve
sulle lenzuola, quante volte
si accartoccia l’albero del noce, quante volte.
Che certa poesia italiana abbia una predilezione per l’haiku è ormai un fait accompli. Esistono anche premi, in questo senso, sponsorizzati dall’ambasciata giapponese; si pubblicano antologie, si organizzano rassegne. Anche autori di fama ne hanno scritti, talora cimentandosi in forme più tradizionali, diciamo ortodosse (ma si ricordi che l’haiku italiano è una forma molto addomesticata dell’originale): per esempio Margherita Guidacci. Ora un altro poeta di area fiorentina, Mariella Bettarini (che qui propongo in un bel ritratto fotografico di Dino Ignani), congeda un piccolo, denso libro di haiku, ma portando nella scrittura alcune novità sostanziali. Bettarini, infatti, affronta l'haiku reinventandone dall’interno la struttura, che pur restando quella canonica dei tre versi di cinque, sette, e ancora cinque sillabe, in realtà si distende in una sorta di dialogo simpatetico con il lettore. Assistiamo a un ampliamento discorsivo, a un consegnarsi della parola non solo di verso in verso, ma anche e soprattutto di movimento in movimento. Gli haiku di Bettarini seguono precisi percorsi tematici suggeriti dall’ordine alfabetico, così la raccolta viene a configurarsi come un vero e proprio libro, un macrotesto con un suo ordine dove nulla può essere spostato o sottratto; ogni lettera è scandita in cinque movimenti interni, ciascuno corrispondente a un haiku. Non può non venire in mente, dietro la grazia e la leggerezza del dettato, l’idea di una decisa sperimentazione, di un progetto coerentemente perseguito, come nel caso dell’Ipersonetto di Andrea Zanzotto. Una sorta di iper-haiku è quanto Bettarini ci offre di tappa in tappa, dalla “a” di Animali alla “z” di Zenith. Ho parlato di leggerezza, ma in realtà – questo è sempre il miracolo della poesia – l’autrice insegue massimi sistemi, valori assoluti. Di lettera in lettera ridisegna una sua personale, ma quanto comunicante assiologia; la volontà di rivolgersi al lettore, coinvolgendolo, è continua e sempre attestata dalle incessanti domande, dal fraseggio locutivo, che perviene infine a un’assertività quieta, a una specie di distaccata saggezza lungamente conquistata negli anni. In questo senso questi Haiku alfabetici, che inaugurano la collana di poesia della nuova casa editrice Il ramo e la foglia, diventano quasi un viatico: «accogliamo ogni inizio / felicemente», scrive Bettarini, invitandoci con ciò a recuperare anche dalle macerie del vissuto le certezze che il tempo ancora può consegnarci. Con la grazia del gioco linguistico, segnato a fondo da assonanze, richiami interni di ogni genere, omofonie, figure etimologiche vere o false, arcaismi, quindi giostrando abilmente la retorica del linguaggio poetico, l’autrice ci “accoglie” (altro termine importante del libro) tra le sue riflessioni, i suoi ricordi e i suoi bilanci; si distacca così dalla tradizione della forma, evitando quadretti e bozzetti legati alle stagioni e ammonendoci carezzevolmente, da questo «perso / groviglio, nuovo, di gridi antichi», come recita l’epigrafe da Pasolini, che «quel che / conta è donare».
Mariella Bettarini, Haiku alfabetici, disegni di Graziano Dei, postfazione di Annamaria Vanalesti, Il ramo e la foglia 2021, e. 12,00.
L > Luce
Illuminante
luce che illumini
tu luminosa
Viva lucente
tu che il buio allontani
fammi tu luce
Ti dico grazie
per quello che ci doni:
luce – sì – luce
Se tu non fossi
come faremmo – oscuri
cuori oscurati?
E invece vivi
vivacemente vivi
di vita fonte
Non è facile tracciare criticamente in poche righe un percorso espressivo ampio, come è quello di Adam Zagajewski. Già esponente di punta all’interno di «Nowa Fala», il movimento che rinnovò profondamente la poesia polacca tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, e di cui fecero parte altri poeti del calibro di Krzysztof Karasek e Ryszarsd Krynicki, Zagajewski si impose fin da subito per la straordinaria coerenza nella ricerca della contemporaneità a scapito della poeticità. «Vogliamo essere contemporanei, non poetici»: questo assunto fece di quel gruppo qualcosa di estremamente aderente al suo nome, che non a caso significa «nuova ondata». Negli anni Zagajewski ha conosciuto più territori e più mondi, fino a raggiungere il lettore di casa nostra con una bella antologia adelphiana del 2012; ma oggi, anche se a notevole distanza di tempo, possiamo disporre di una nuova e più ampia antologia, affidata alle cure di Marco Bruno, che per lo Specchio mondadoriano firma anche le efficaci traduzioni di Guarire dal silenzio. Il volume si costruisce intelligentemente a ritroso, partendo da una buona selezione delle ultime prove poetiche dell’autore, per giungere fino ai più antichi Negozi di carne, del 1975, e Comunicato, del 1972, il testo che fece conoscere Zagajewski e lo consacrò fra le promesse certe della poesia polacca e non solo. Dunque l’operazione è doppiamente meritoria, perché se da una parte ci consente di tornare a leggere un poeta di assoluto valore, dall’altra ne ricostruisce la fisionomia nel tempo, lasciando scandire le tappe della ricerca poetica di libro in libro, fino alle origini. Distesa così, la scrittura di Zagajewski si mostra non solo nelle sue progressive acquisizioni, ma anche in una humanitas spesso perduta e ritrovata per via lirica: si avverte immediatamente che intorno a questi versi gravita un mondo di presenze e di assenze, di incontri e di lutti, di memorie che si sovrappongono alla poesia stessa ricordandoci il flusso autentico della vita ordinaria, quella in cui torniamo a noi stessi, e «anche allora si può vivere». Si comprende così come l’idea di contemporaneo si sia progressivamente assestata intorno a un nucleo di quotidianità e affettività, senza mai perdere di vista, sullo sfondo, l’orizzonte spesso tragico della Storia. Basta appena un toponimo, un minimo richiamo, e la vicenda privata si estende a dismisura con un effetto di insolita e quasi straniante amplificazione fino a coinvolgere il lettore in un orizzonte imprevisto, la cui domesticità diventa nell’immediato accoglienza e coinvolgimento. In Zagajewski il dolore personale e il dolore della Storia procedono di pari passo, si intersecano anche in alcuni momenti della vicenda biografica, e la sua poesia ne riflette i movimenti più intimi e remoti, chiamandoci a parteciparvi e a non dimenticare.
Adam Zagajewski, Guarire dal silenzio, a cura di Marco Bruno, Mondadori, pp. 298, e. 22.
Charlie dichiarò una volta a New York
saremo amici – e fummo amici
per trent’anni.
L’amicizia è immortale e non ha bisogno
di molte parole. È paziente e serena.
L’amicizia è la prosa dell’amore.