giovedì 2 dicembre 2021

Due libri su Edgar Allan Poe

 



Vorrei segnalare due recenti iniziative editoriali che riguardano Poe. La prima è una biografia, a firma di Teresa Campi, studiosa del primo Ottocento inglese e americano e autrice, tra l’altro, di un fortunato volume sulla presenza a Roma di poeti come Keats, Shelley, Byron; la seconda una traduzione delle poesie di Poe, a cura di Raffaela Fazio. La biografia si intitola La vera storia di Edgar Allan Poe ed è stata pubblicata da Odoya lo scorso anno, ma ha potuto circolare solo da pochi mesi; la seconda, Nevermore. Poesie di un Altrove, si avvale di una postfazione di Leonardo Guzzo ed è edita da Marco Saya.

Inizio dalla biografia, che a mio parere ha diversi pregi. A partire dall’essersi lanciata in un’operazione rischiosa, non solo per il personaggio, ma soprattutto per le incrostazioni, le numerose patine che lo hanno ricoperto; quindi per ragioni più interne al genere e alla scrittura, perché a parte memoires personali e autobiografiche, vite più o meno fittizie e mitizzate, quello della biografia vera e propria non è un compito così scontato per la tradizione italiana. Certo, ve ne sono tante di ambito accademico, che spesso si riducono a un elenco di fonti e documenti; ciò che manca alla biografia italiana è proprio il senso e la misura della scrittura. Non tutte le vite, poi, sono così interessanti o gloriose, ma il punto non è il materiale biografico: è proprio la scrittura, una scrittura che deve ricostruire qualcosa di accaduto, ma ponendolo nella prospettiva storica più corretta, quindi renderlo interessante. A volte anche il dettaglio minimo può esserlo. Allora sorprende che Teresa Campi abbia davvero lavorato in questa direzione, sottraendosi sia alle pastoie dell’accademismo sia al romanzesco più pettegolo. Sorprende, ma fino a un certo punto; da studiosa delle tradizioni inglese e americana, da sempre – fin dal tempo della sua formazione – ha potuto frequentare quegli autori che riconosciamo universalmente come maestri nell’arte della biografia.

In caso di incrostazioni e sedimentazioni improprie, una biografia deve correggere il tiro. Ancor più nel caso di un personaggio “difficile” come Poe. Dunque Teresa Campi ha sceglie di intitolare il suo lavoro La vera storia, per poi dover ammettere con assoluta correttezza, in una breve avvertenza al lettore, che «vuole solo restituire qualche verità». Questa precisazione non è banale né occasionale, ma rivela piuttosto una conoscenza approfondita delle scritture biografiche, dei loro limiti e delle loro difficoltà. A cominciare da quella che è la verità del percorso esistenziale di ciascuno di noi, e anco più di uno scrittore: un percorso di simulazioni e dissimulazioni. L’autrice ne è perfettamente cosciente: «l’immaginazione corre», scrive, mentre ci introduce nella stanza dove la madre del poeta sta morendo. Elizabeth è un’attrice e la stessa camera, rossa come il sangue che la tubercolosi le fa gettare, è come un piccolo sipario dietro il quale Edgar e Rosalie, sua sorella, assistono a un dramma che ancora non sanno definire nella sua tragica verità. Rappresentazione e realtà si scambiano fin da ora le parti.

Questa osmosi tra realtà e rappresentazione percorre tutta la vita invero rocambolesca di Poe e di conseguenza questa biografia. È ciò a cui ho accennato e che non posso non chiamare col suo nome: il romanzesco, ovvero ciò che al di là delle carte e delle fonti e degli eventi comprovati, spesso in tante biografie manca affinché tutti questi elementi finalmente parlino nel tono giusto, in una cornice di narrabilità. La vita è teatro, contempera in sé la finzione. In questo discrimine è possibile, è lecito, ricostruendo, inventare. Che non vuol dire affatto favoleggiare: inventio viene da invenire, che ha come primo significato trovare, ovvero imbattersi a caso in qualcosa o in qualcuno. In ogni autentico lavoro di ricerca il margine di casualità è sempre elevato: il caso, qui, ha voluto che l’autrice s’imbattesse in un documento raro, inedito. Si tratta dei primi due fogli autografi di una lettera in parte pubblicata e nota agli studiosi di Poe. È quanto, il 29 agosto 1849, tre anni prima della morte, Poe scriveva a Muddy, la zia-madre di Baltimora, punto costante di riferimento e anche di quel minimo di solidità famigliare. Sono pagine struggenti, in cui si riassume il senso di disperazione di un’intera vita, segnata solo in brevissimi istanti da labili successi. Il cuore è a pezzi, Poe descrive stati di solitudine, povertà, fallimento. È un bilancio desolante; le sole speranze per il futuro sono affidate al matrimonio con la benestante Elmira, non alle proprie forze o risorse. Il discorso si sposta sempre più sul piano economico, fin nei dettagli; ne viene, neppure troppo in filigrana e nonostante la cospicua occasione, la coscienza del fallimento, che coinvolge noi lettori in considerazioni anche di più ampio raggio rispetto alle alterne fortune di Poe e alle difficoltà di ricezione della sua narrativa, al suo personale deragliare verso l’alcol, ma che riguardano piuttosto la condizione sociale del letterato nella prima metà dell’Ottocento nel Mondo Nuovo. È una situazione che in parte muterà nella seconda metà del secolo, se si pensa alle sorti di Twain o di Melville, cresciuti in ambienti borghesi più abbienti. Il punto dolente, quanto a Poe, credo sia proprio la ricezione, questione su cui giustamente Teresa Campi si sofferma spesso e che coinvolge la stessa postumità di Poe, se uno scrittore come William Faulkner poteva affermare che proprio Twain si potesse considerare come il primo vero scrittore dell’Ottocento americano. Non so quanto il giudizio riguardasse il merito delle rispettive opere, o altre considerazioni di natura socio-culturale; resta il fatto che a distanza di decenni Poe abbia faticato ad affermarsi in un modello dominato da spinte economiche e dal puritanesimo. Gran parte della sua fortuna di scrittore, ancora oggi, è dovuta come sappiamo alla ricezione europea della sua opera e alla fondamentale mediazione di Baudelaire, assolutamente in sintonia, nelle sue ricerche poetiche, con il mondo lugubre, noir, gotico, fantastico di Poe. Non c’è biografia, infatti, che non si colleghi a un contesto storico-culturale, ciò che l’autrice si preoccupa sempre di restituirci nella sua vivezza e nella sua realtà, spesso oscillante tra morbosa ammirazione, stima genuina, più spesso rifiuto o repulsione.

Credo che il merito maggiore di Teresa Campi stia, in questo lavoro da cui trasuda tutta la sua passione, proprio nell’aver problematizzato un nodo centrale, forse il nodo centrale del problema Poe in riferimento al suo tempo, e di averlo fatto non solo con gli strumenti dell’analisi letteraria, ma con quelli della ricostruzione biografica. Il nodo è questo: quanto del “teatrismo” materno, finanche in questa morte romanzata, abbia poi condotto lo scrittore verso una prospettiva borderline, non in senso psicologico ma percettivo della realtà. Ciò che emerge con una certa chiarezza ed evidenza, in questo libro, è l’estrema fluidità di questa vita, tra aspirazioni, blandi successi, opportunità negate, costruzione e direi anche autodistruzione. È una fluidità che Poe trasmette per intero nei suoi racconti, che ci affascinano ancora proprio per questa ambientazione di soglia, di passaggio fluido, magistralmente inavvertito, tra una dimensione concreta e una più fantastica. Ma ogni riga di Teresa Campi ci aiuta ulteriormente a riflettere come queste categorie stiano strette a Poe: tutto in lui è fluidità (generi, tipi della narrazione, passaggi di situazione), tranne che di forma. Eppure un’osmosi c’è, e forte: non è possibile guardare al narratore senza gettare, contemporaneamente, uno sguardo al poeta.



In questa direzione ci viene in soccorso la traduzione di Raffaela Fazio. La sua operazione è pienamente condivisibile: si opta per una versione isometrica e profondamente musicale. L’attenzione al ritmo (Fazio è anche poeta in proprio) è il dato primario, accanto al rispetto di alcuni termini che vengono alla luce come veri e propri indizi, in un tracciato lirico che resta, nel complesso, fisico e mentale insieme. Questa duplicità dimensionale è còlta e direi particolarmente seguita durante tutto il lavoro di traduzione. E se la forma (come in tutti gli autori che sembrerebbero negarla) resta una questione imprescindibile, il lavoro di Raffaela Fazio è ancor più meritorio, avendo tenuto in conto proprio quel «tracciato armonico», come lei stessa riconosce, che è alla base del verso di Poe. Nel complesso è un’operazione felice, oltre che una scommessa davvero ardua. La resa italiana, infatti, si svincola dal traduttese di servizio per approdare a una compiutezza autonoma; insomma, abbiamo un Poe poeta nella nostra lingua. Qualche necessità di «addomesticamento», in questo tipo di impostazione, doveva pur imporsi. Ma è inevitabile. Con buona pace dei traduttologi che ritengono più attenta alla lingua di partenza l’azione di un poeta che ne traduce un altro, in realtà c’è sempre una reinvenzione, un sovrapporsi di officine. L’importante, per Fazio, è conservare il più possibile la forma originale, e per farlo non esita ad accogliere alcune soluzioni assenti nel testo di partenza ma coerenti con esso. Un rapido esempio dalla prima poesia, Gli spiriti dei morti: l’originale, negli ultimi due versi, recita «How it hangs upon the trees, / A mystery of mysteries!». Per rispettare la rima finale, almeno in consonanza, Fazio concepisce una variazione, che ci restituisce comunque l’immagine senza deformarla. Scrive dunque, e noi l’accogliamo,  «Come incombe sospesa sulle fronde, / mistero tra i misteri più profondi!». Accanto alla biografia, abbiamo quindi la possibilità di ripercorrere l’intero tracciato esistenziale ed espressivo di Poe, nel duplice binario tra poesia e prosa. 

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