La poesia è «una rossa signora / scorta per caso / nella fretta di un’ora» e viene a dirci cose ovvie. Le cose, cioè, da cui siamo talmente circondati, e a cui siamo talmente abituati, da non riuscire a scorgerle più, e a non dirne. Il vero mistero della poesia è in questo, lo ripeteva da ultimo un lettore d’eccezione come Luciano Anceschi in un saggio importante e non facile, Gli specchi della poesia. Traggo questi versi dal libro di Michele de Virgilio, Tutte le luci accese, che con una prefazione di Paolo Di Paolo raccoglie le poesie scritte tra il 2011 e il 2017. De Virgilio è un poeta del Sud, lo ribadisce più volte: per quanto stereotipo, il suo territorio, ancora una volta causa di delusioni e desolazioni, di fughe e partenze coatte, si offre come una metafora potente, al di qua però di quanto è accaduto dall’altra parte del regno borbonico, ovvero oltre il faro di Messina, dove la metaforicità, come ci insegna una lunga e felice tradizione, è davvero spinta al massimo. De Virgilio invece si trattiene all’interno di un territorio tutto personale, compreso tra gli affetti familiari, gli amori, le esperienze di lavoro (è tecnico della riabilitazione psichiatrica e dunque frequenta e conosce a fondo i percorsi della mente) e i viaggi. In questo quadrato perfetto, dove nessun lato sembra predominare sull’altro, si sostanzia la sua scrittura, prende corpo (è proprio il caso) la sua poesia, nella forma di quella «rossa signora». Allegoria o allucinazione? Non importa, il risultato non cambia: la fisicità è una componente essenziale in questo libro, dove il corpo è paesaggio esattamente come il paesaggio si fa corpo. Il Sud «è una sala da parto immensa».
Si disegna, come giustamente suggerisce il prefatore, una sorta di mappa geografica, composta di luoghi e città, di acque che percorrono inesorabilmente gli ambienti carsici di una mente fertile, disposta ogni volta ad assorbire l’osservato, a reinventarlo e dunque a farlo esistere. Per questo la memoria ha un ruolo primario in questa scrittura: ne è l’autentico motore, ma non nel senso proustiano, conservativo, di recupero di un «tempo perduto», quanto di un costante riplasmare il paesaggio. La poesia, ricordava Paz, non è l’esperienza, ma la metafora di un’esperienza. E ogni metafora è un ricordo. È questo, direi, il vero tratto “meridionale” di de Virgilio, ciò che lo accomuna, per esempio, alle scritture di un Gatto o di un Bodini. Dunque anche le allegorie o le allucinazioni fanno parte di questo percorso: la «vita», termine chiave per questo poeta, si fa «limpida» quando la bellezza esclude il mondo, ovvero quando comincia il lavoro della scrittura. Quando la poesia agisce, quando l’autore preme «il pulsante dello scrivere» per illuminare «i sottoscala del cuore».
Tutte le luci accese potrebbe allora tradursi con “tutti i motori della poesia accesi”, come con la visione di un paesaggio composito e felice. Certo, c’è anche lo «scontento» che si registra nell’ultima sezione, ma sappiamo che fa parte del gioco. Sostanzialmente de Virgilio è un poeta felice. E consapevole: «Io viaggio per non diventare cieco», recita l’epigrafe iniziale da Josef Koudelka. E allora questa fisiologia della visione, che sa farsi insieme introspezione e invenzione, ci riporta, con tutta la freschezza di questi versi, al moto originario della poesia, al suo guardare il mondo con uno sguardo ancora fanciullesco, mentre ci si interroga se il futuro sarà «un tuono / o un faro spento».
Michele de Virgilio, Tutte le luci accese, pref. di Paolo Di Paolo, Ladolfi 2018, e. 10.
Ultima preghiera
ad A.M.
Tu che mi guardi,
che mi raccomandi di non fare tardi,
provocami la fede, cospargi
di baci nobili i miei giorni di luce
elettrica, dimmi chi sono,
da dove vengo.
Se il mio futuro è un tuono
o un faro spento.
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