Ogni espressione estetica ha bisogno di un lungo sedimentarsi. C’è un sedimento interno, ovvero la ricerca di una forma, di un’immagine che si traduca in lingua, e un sedimento esterno, ovvero l’attesa che quella lingua sia condivisa, sentita, assimilata. Lavorare sul presente è come vivere in trincea: si rischia di non vedere, di non essere visti, ci si arrocca nelle proprie verità presunte; si è colpiti dal proiettile dell’avversario prima di averlo individuato, si è uccisi da un fuoco amico. Il presente è davvero una trincea infida per ogni lettore. Specie quando il lettore in questione vuole emettere giudizi.
Non mi sono mai sentito un sacerdote o un ministro di qualche culto letterario: sono piuttosto figlio di una tradizione di dubbi e scetticismi, ed è un patrimonio che non mi sento di dover rinnegare. Lo scetticismo, inteso come l’arte del distacco, è una bussola irrinunciabile, per me. Quindi non erigo altari, e tanto meno elevo incensi agli altari costruiti dagli altri. Non ho mai avuto un culto, per esempio, per Renato Serra. E credo che il suo Esame di coscienza di un letterato, pur nelle terribili circostanze in cui fu scritto, sia un libro che riecheggia tutti i possibili tormenti di una generazione, senza venirne a capo. Con ogni probabilità, non si poteva o non si doveva venirne a capo. Ma il suo «saper leggere» ha tratti ambigui; il suo guardare al presente come se fosse scevro di autentica poesia, mentre tutta la grande poesia del Novecento si affacciava proprio in quegli anni, ci rivela che l’Esame, in realtà, nella realtà distante da cui possiamo osservare oggi quel testo e tutta la letteratura che gli fermentava intorno, fu un libro cieco.
Non si trattò solo di questo, ma della nascita di un vero e proprio culto, e di un vero alone di autorità legato alla vicenda del personaggio. Talmente autorevole che ancora oggi lo si cita come modello per impropri confronti tra i primi anni di questo millennio e i primi dell’ultimo secolo; talmente autorevole che ancora oggi si leva la voce, altrettanto impropria, di qualche renatoserra fuori tempo massimo, che vestendo i panni di Catone, e presumendo che il suo «saper leggere» sia un sapere superiore a tutti gli altri, viene prima a insufflarci il sospetto, o addirittura la certezza, che la poesia italiana sia morta e sepolta, quindi che anche la critica di poesia sia stata indotta – per contiguità fisiologica, per assenza di materia su cui operare, per consunzione di strumenti – a seguire la stessa triste strada.
Gli argomenti di questi censori, che al povero, ignaro Serra, sovrappongono altre autorità, come quella di Adorno, o direttamente la propria, senza alcun pudore di essere smentiti, sono invero generici. Si cita un possibile, quanto discutibile panorama, come se si provasse a fotografare un paesaggio assente. Mai o quasi mai si fanno i nomi dei responsabili di questa ineffabile débacledella poesia e dei critici conniventi. Oppure, come dal cilindro del prestigiatore, si fanno apparire gli illustri sconosciuti, si accende un riflettore su di loro per spegnerlo subito dopo: non si sa mai, potrebbero diventare dei poeti con la maiuscola. Si richiamano quindi ricette inverosimili, come se i linguaggi dell’arte fossero privi di un loro sviluppo nel tempo, si elencano gli ingredienti mancanti o quelli da resuscitare: qui ci vuole una certa forma, l’artigianato del verso, perfino la rima. Si riecheggiano le scritture dell’impegno. La poetica, o ancor peggio la teoria, vuole la sua supremazia sull’operato dei poeti, sul farsi intrinseco e naturale delle loro officine. E con quale impeto, con quale gusto della dissacrazione generale, bruciando il grano insieme alle erbacce, queste voci gridano perfino con un certo compiacimento la loro estetica funebre… Perché è proprio il lato funerario a garantire loro l’esercizio di un’autorità, ridotta ahinoi (ahiloro?) all’ultimo residuo.
Preferisco la vergogna di scrivere poesie a quella di non scriverne, sosteneva Wislawa Szymborska. Preferisco una confusa vitalità (ma quale vitalità non è di necessità confusa?), testimoniata da fermenti e da ben altre attenzioni, più disinteressate nel senso più nobile, alle partigianerie da trincea. Lascio ad altri le guerre, questi triti scenari da polemica estiva, da rotocalco da riempire, e torno al mio lavoro.
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