Per
un lettore e un interprete acuto di Montale come Marco Sonzogni (ricordo, qui,
i due recenti volumetti per Archinto: La
speranza di pure rivederti… e, in questo 2017 ormai al termine, «Il guindolo del Tempo». Montale, Clizia e
il pegno) potrebbe sembrare scontato che il passaggio nella scrittura in
versi comporti – se non l’emulazione – qualche riferimento, sul piano della
citazione, dell’imitazione, dell’affettuosa, omaggiante parodia. In effetti
qualche segnale di queste pratiche si ritrova nelle pagine della sua ultima
raccolta, Passaggi. Poesie e prose
poetiche, in cui l’autore riunisce il lavoro creativo degli ultimi tre
anni, dal 2014 al 2017. Il volume è apparso nella collana «Labyrinty» per una
sigla che ha fatto la storia della poesia italiana del primo Novecento, Montale
compreso; all’editore Rocco Carabba di Lanciano si deve, infatti, una
sfortunata edizione di Ossi di seppia,
perlopiù finita distrutta in un incendio che colpì il magazzino dove erano
custodite le copie.
C’è
dunque, nelle vicende di Sonzogni, una sorta di transfert montaliano, avviatosi
proprio con le sue ricerche sul rapporto tra il poeta e Irma Brandeis, la
studiosa ebrea americana che avrebbe dovuto portarlo a insegnare negli Stati
Uniti, senza riuscirvi. A colei alla quale era destinato il nome di Clizia,
Montale aveva promesso un «pegno», un «amuleto» finora mai rinvenuto, sulle cui
tracce Sonzogni si è avviato con successo. Ma come Montale restò in Italia,
avviandosi a una fitta attività di giornalismo culturale, il suo giovane
esegeta ha invece compiuto un lungo, vero viaggio, fino agli antipodi (insegna
letteratura italiana a Wellington). Così i temi della dislocazione, della
distanza geografica e affettiva ricorrono nei suoi versi, intrecciandosi – ma
poche volte, a dire il vero – con il fantasma di Montale e con alcuni dei suoi
attacchi e chiuse più famosi: «Non distorcere ti prego l’ombra con cui sfioro /
il tuo pensiero»; «Puoi tu non crederti sorella?».
Si
tratta di brevi apparizioni, di segnali di voluta, esibita vicinanza di
lettore, piuttosto che di una vera e propria contaminazione. La scrittura di
Sonzogni, già matura, procede autonomamente per raccontare, piuttosto, ciò che
nella vita di Montale non è più accaduto (e verrebbe di dire, col senno di poi,
che non sarebbe mai potuto accadere). Treni e stazioni popolano queste poesie,
in una sorta di vortice motorio, di incessante spostamento nel tempo e nello
spazio, tra memoria e presente. Caparbiamente, come ogni vero poeta, Sonzogni
sa che la sua sola casa è la lingua che lo abita. Così il componimento finale
ci affida a un dialetto lombardo: «sono sicuro che la mia casa è qui»,
nell’identità delle parole, nel loro suonare affettivamente. È una certezza che
non si può non condividere e che appartiene, da sempre, alla storia della
poesia: fuori di quella lingua la vita preme con le sue urgenze, donando al
poeta «occasioni» di scrittura, portandolo nella dimensione assoluta del «qui e
altrove», dove le immagini si affastellano senza condensarsi. Perché questo
accada, Sonzogni sa che deve fermarsi nella propria lingua, lui che è anche un
abile traduttore (ricordo il “meridiano” di Seamus Heaney). Solo lì, fondando e
rifondando ogni volta il proprio stile, tutti gli ingredienti della poesia,
dalle Ipotesi ai Lasciti trovano finalmente espressione, simili modo; ovvero nel modo in cui la vita stessa vorrà riportarci
al punto della sua origine.
Marco Sonzogni, Passaggi. Poesie e prose poetiche (2014-2017), prefazione di Matteo
M. Vecchio, Carabba 2017, e. 13.00.
Che
già solo cercarti
smuove,
scalfisce, strappa.
E
non so sparare. Guardo
da
terra, in pectore guado.
Quando
la misura scappa
io
rinculo e tu riparti.
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