A dispetto del titolo
darwiniano, che vorrebbe rinviare a un vastissimo scenario epocale, di ere e
infinite durate, di lenti processi metamorfici, questo libro di Baldo Meo si apre
con una citazione da Jodorowskj, che si assesta intorno a un’idea di conoscenza
«piccola», legata alla capacità (all’arte?) di «seminare». Possiamo leggerla
come una variante dell’adagio con cui Voltaire - che osservava il mondo della
natura e degli animali sotto una lente democratica, di uguaglianza e parità con
lo stato umano - ci invitava a cultiver
notre jardin, ovvero a un lavoro su noi stessi, intorno a noi stessi, nel
«piccolo» recinto delle nostre esperienze e delle nostre relazioni.
Come sia strutturato, e
descritto, questo recinto, ci viene subito detto. La prima poesia, posta a
viatico, è improntata alla disattesa. Nei «lunghi anni», metaforici (e ironici)
della sua evoluzione, l’esemplare che ha preso parola si racconta alla
finestra, in un abbraccio visivo che comprende (ancora metaforicamente) l’alto
e il basso, la «strada» che è il grande circo delle mutazioni e il «cielo» dei
destini. Ma «quel che è», come recitava un titolo di Erich Fried, ovvero quanto
accade e resta, è solo il predisporsi al «clima», l’unica certezza che sembra
appartenere al soggetto.
Sul basso, ancora più
basso, si concentra la prima delle cinque sezioni in cui è ripartito questo volume,
Il legno del pavimento. Una chiara
topografia è scandita nel procedere di queste suite: se le due a seguire
parlano nuovamente nello spazio del quotidiano, nella sua dimensione più
consueta, la quarta, Distanze, torna
a proiettare lo sguardo fuori della finestra, verso lontananze celesti o
sentimentali (non fa differenza se il cielo è da sempre l’emblema del desiderio
e dell’assenza e l’azzurro, per i moderni, è il colore della malinconia). Si
richiamano così echi trobadorici, quell’amor
de lonh che è uno dei grandi nutrimenti della lirica occidentale e,
certamente, una delle condizioni del suo insistere sulle tematiche
dell’innamoramento. L’ultima sezione, Tutto
sommato, contiene etimologicamente la summa
di questo percorso tra assenza e presenza («assenza più assurda presenza»
diceva un antico verso di Bertolucci) e non a caso la poesia conclusiva è
quella che dà il titolo all’intera raccolta.
Se queste coordinate sono
esatte, Baldo Meo ha inteso disegnare una mappa precisa lungo cui condurre il
lettore, in un percorso che vorrebbe essere segnato dall’empatia e dalla
partecipazione, nella ripresa sostanziale, e tematicamente convincente, di
quanto è indicato nel testo d’apertura: dal basso verso l’alto, in una visuale
onnicomprensiva del proprio esser-ci, anche e soprattutto in relazione
all’altro-da-sé. Perché l’esemplare, su questa terra e sotto la volta del
firmamento non è solo, ma è collocato naturalmente in un circuito relazionale
fatto anche di sfide e di distanze, di incontri e di separazioni. Viene allora
da chiedersi se sia un’intera specie a volersi conservare, resistendo alle
dinamiche del tempo, oppure, al suo interno, il singolo individuo, costretto a
misurarsi in un confronto incessante con epifenomeni che, sulla durata,
incidono forse più di quel che sembra significativo nell’immediato. Il poeta
non vuole dare risposte alle lucidissime domande che sottintende e che ci
consegna, mantenendo così vivo e acceso il senso di quel confronto: talmente
serrato che l’io vorrebbe infine ottundersi, confondersi con l’universo della physis, perdere i connotati del pensiero,
vivendo neppure per istinto (dal suo breve elenco di similitudini è bandito il
regno animale) ma affidandosi per intero alle leggi della natura.
Basta dunque
un’inclinazione della luce esterna, un raggio di sole sul pavimento ed ecco
affacciarsi fin da qui la fisiologia della luce di Hopper, al quale, più
avanti, è esplicitamente dedicata Le case
vicino alla ferrovia. LO sguardo alle venature del legno si accompagna all’invocazione
di una metamorfosi mancata, che solo il lare paterno, ormai cenere sparsa, può
subire. Avvertiamo un’altra eco, quel confondersi, fuori della Storia e del suo
insopportabile teatro, come «una docile fibra» in un universo vegetale, ancora
capace di linfe vitali. Così scriveva Ungaretti in trincea, ma qui,
nell’apparente serenità dell’osservazione, si combatte comunque un’altra
guerra, quella per la sopravvivenza e la «conservazione».
Dei due importanti sensi
che caratterizzano la percettività dei moderni, la vista e l’udito, è
quest’ultimo a risultare il grande assente nei versi di Meo, dominati piuttosto
dall’osservazione della luce e da un silenzio davvero insolito nell’estremo
volgersi del millennio, nella sua confusa e crudele urbanità. Ed è proprio
questo silenzio a rendere più chiaro lo svolgersi dell’osservazione, fino a
farla divenire contemplazione, ovvero ritorno del pensiero sulla vista,
accadere simultaneo di due sensazioni che vanno precisandosi in un
cortocircuito analitico, in una discesa verso i propri inferi. Fermarsi in una
«mente occasionale», afferrare l’istante in cui la realtà, rifuggendo da ogni epifania,
si lascia cogliere per «quel che è», per tornare a Fried, «tranquillamente»,
senza più sbalzi e sobbalzi, è ancora un «naufragare dolce» o quella
tranquillità allude invece a una condizione di resa e di disincanto?
La citazione leopardiana
(«essere seduto / accanto al silenzio») è evidentissima, ma quello stato di
«quiete» non è poi così pacifico. Lo attraversano, ancora sotto metafora, la
«pioggia» e il «sole» della vita, l’altalena di morte e resurrezione a cui l’io
è costretto «senza ragione». A naufragare, ancora una volta, non è il soggetto
ma il suo pensiero, con buona pace di Cartesio: un io scomposto tra pulsioni
interne e principi di realtà. Lo scenario di questo naufragio è quello di una
«Damasco inferiore», sia nel senso di una privatissima catabasi, sia in quello
di esposizione al proprio inferno. Allora anche la vista allora vacilla, se la
mente stessa è ridotta a buio, se la contemplazione è impedita e resta solo il
silenzio assordante di un incubo; come Saulo, il poeta rischia la cecità, ma è
anche vero che quello è, con ogni probabilità, il suo status più autentico, quello che consente l’avvio di un immaginare
in grado di proiettarlo oltre la dialettica di assenza e presenza.
Proprio per questo, perché
la specie si conservi (e con essa quell’io-moltitudine chiamato ogni giorno a
lavorare su se stesso) il soggetto deve «comporre armonie», deve rintracciare
un possibile «ordine benigno». Si avverte ancora un residuo d’ironia, in questo,
un tentativo estremo di distacco (tale è l’ironia) e di libertà, ma la via
d’uscita è sempre e soltanto in «quel che è»: «al sole / ogni cosa è buona»,
scrive Meo, alludendo già a quella «salvezza omeopatica» per cui il negativo
combatte il negativo e quel che appare «minuto» ritorna, «tutto sommato», nel
pieno delle sue potenzialità semantiche e vitali.
Eppure il silenzio persiste.
L’ultimo, tra i rari animali presenti in queste poesie, è la lucertola che
compare sul finale, una creatura senza voce. Una favoletta di Gadda racconta
l’incontro, sulle scale di un museo, tra una lucertola e un dinosauro, e questi
si rivolge a lei con ironia devastante: «Oggi a me, domani a te». Lei, dalla
sua «piccola» dimensione, non risponde. La «conservazione della specie» passa
anche attraverso la riduzione, che è sempre, anzitutto, un effetto della
lingua: il silenzio.
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