Leggo
Pressioni, il libro di Luca Minola
che Maurizio Cucchi ha accolto nella sua collana «I Giardini della Minerva»,
per le edizioni LietoColle. Così Cucchi ci introduce a questo poeta: «La luce
parrebbe porsi come un elemento strenuamente ricercato nella poesia di questo
giovane autore di cui emergono, già a prima lettura, la capacità di controllo
stilistico e formale, la sobrietà del linguaggio, il desiderio di penetrazione
di un reale sempre incerto, ambiguo, oscillante». È quanto si potrebbe dire di molti
altri autori della generazione di Minola, che
Cucchi da tempo monitora con attenzione. Ma questo autore non ha timore
di tornare a esibire, al contrario dei suoi coetanei, referenti chiari e non
certo prossimi, come Montale e Porta rievocati in epigrafe, ad apertura di
libro. È un viatico interessante – e importante – non solo per comprendere Pressioni, ma anche per ristabilire un
contatto, consapevole e privilegiato, con la poesia del Novecento, spesso letta
come un serbatoio a cui attingere, nel migliore dei casi.
Che
Minola ami la poesia, che la coltivi – come lettore avveduto, anzitutto – è
evidente dal rigore della sua scrittura. La lezione dei maestri per lui non è
solo una questione di immagini, ma anche di stile: «Gli stili ci precedono,
temuti e assenti», dice in un verso. Lavorano sotterraneamente, sono anche un
pericolo. È un verso che ribadisce una sorta di datità delle cose, un andamento
concettuale quasi apodittico, che scandice certezze incontrovertibili. Nelle
forme brevi, dove riesce meglio (in quelle più lunghe a volte il fraseggio
inciampa, ma si tratta di minime messe a punto), ogni incipit ci parla di
questo. Propongo una rapida carrellata: «Le attese hanno nomi precisi»; «Il
campo era sterminato»; «Le pupille non trattengono, rilasciano» (bell’indizio
di poetica, questo); «Le sostanze sono chiare»; «Il sermone è in silenzio»; «La
pace consuma». «E quel che è», avrebbe detto un poeta come Fried. Ma questa
datità è smossa, agita, per usare un termine a cui Minola stesso allude in
queste poesie, da un «delirio d’immobilità». Montale è presentissimo, come è
presente anche la sua ricerca di una «maglia rotta», o con Porta, di «un foro
nella tessitura celeste». È una datità senza tempo, passato e futuro implodono
nel presente come implodono le immagini, così essenziali, stilizzate in una
contrazione, in una sintesi estrema. Il fraseggio di questi componimenti più
brevi ricorda molto quello del primo Neri, così spiazzante nella sua
asciuttezza, ed è questo l’andamento che Minola predilige; ciò che nei
componimenti più lunghi talvolta oscilla, qui si mostra invece con indiscussa
compattezza.
La
luce a cui allude Cucchi sembrerebbe dunque una luce della certezza, se non fosse che
queste tarde epifanie sfuggono al divenire, per astrarsi da una storia personale.
A questi fotogrammi implosi Minola dà un nome preciso, un nome che è il titolo
stesso del libro, perfettamente coerente, e della sua breve, fulminante sezione
centrale: la sua è una poetica della «pressione», che pesa sulla percezione
delle cose, sulla loro acquisizione psicologica, come pesa, concretamente,
sulla «materia» (non a caso il titolo della sezione da cui Minola riparte,
passata la boa del centro). In questo stato di «attesa» (montaliana, ermetica,
e più indietro già simbolista) Minola sceglie di sostare, prima che il tempo
riprenda il suo corso vertiginoso, per condividere lo spazio minimo di un
vissuto osservato e trasfigurato nella severità della poesia.
Luca Minola, Pressioni, LietoColle 2017, e. 13.00.
Apre
la sua vela una giornata di calore:
svela
i segnali, le ritmiche delle gradazioni,
i
lampi come sogni ripuliti.
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