C’è
un verso, nel nuovo libro di poesie di Marco Aragno, che mi ha particolarmente
colpito. Si trova nell’ultimo, lungo componimento intitolato Viaggi binari, e anche questo titolo è
bello e si sarebbe prestato per l’intero volumetto, che si intitola invece Terra di mezzo. Lo ha pubblicato, sul
finire dello scorso anno, l’editore Raffaelli di Rimini. Questo verso parla di
generazioni, ed è abbastanza inusuale trovare questa parola declinata al
plurale, perché da un decennio, ormai, la nuova poesia italiana sembra troppo
spesso arroccarsi su se stessa, rompendo di fatto e con risultati prevedibili,
il ponte con i padri e i fratelli maggiori. Scrive Aragno, che è ormai un poeta
di trent’anni, del «movimento dei pescherecci» che intreccia «generazioni con
generazioni / dentro un’illusione di continuità». Potremmo rispondere, troppo
facilmente, che il tempo stesso è illusione, ma non credo sia questo il senso
del verso. Per provare a spiegarlo chiedo soccorso a Foucault, che l’autore
mette in epigrafe: «Vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si
vede non sta mai in ciò che si dice». Ecco, quell’«illusione di continuità» non
è un semplice dato anagrafico o più latamente culturale, ma diventa per Aragno
una sfida percettiva, coinvolge non solo il tempo (o la storia, quando
normalmente si parla di generazioni), ma anche lo spazio empirico in qui quella
storia si svolge e vorrebbe essere narrata. Anzi, essa è tutt’uno con quello
spazio. Lo sguardo non può più essere solo orizzontale, ci suggerisce Aragno,
ma insieme verticale. Deve scendere nel tempo, anche a costo di registrarne la
frammentarietà piuttosto che la continuità: perché il paesaggio non rinchiude
«la scena della storia».
Il
poeta non giudica le sue scoperte. Non atteggia valori o disvalori, non
esibisce prese di posizione. Così il suo potrebbe sembrare, ma è un’apparenza,
un distaccato grado zero dell’osservazione, ma è la lingua, questo coacervo
delle nostre identità, a sconfessarlo. Ancora
una volta ci imbattiamo in un soggetto che ha bisogno non solo di circoscrivere
le proprie esperienze, ma di restituirle in una forma estetica, oggettivandole
nella scrittura. È il problema di partenza di qualsiasi percorso creativo che
voglia ispirarsi a una presa di coscienza, alla conquista di una consapevolezza,
anche se questa dovesse risponderci in negativo, come è stato per (quasi tutti)
i poeti del Novecento. Aragno prosegue, dopo il felice esordio di un libro
impronunciabile (Zugunruhe, apparso
nel 2010), a creare la dimensione del problema, senza avere fretta di darsi
delle risposte. Da qui proviene l’impressione non di una freddezza, ma di una
capacità di distacco dalle cose che appartiene ad altra maturità. Ma i suoi
versi hanno, al contrario, tutta l’accensione di un espressionismo appena
soffocato, e delegano spesso il loro inquieto immaginario a proiezioni animali,
allestendo una sorta di cupo bestiario medievale. La natura di queste poesie
non è certo il teatro dell’idillio, ma il duplice versante di una crudeltà che
si mostra anche nelle forme più innocenti.
Tutto
il libro è animato da questa sorta di viaggio, ora immobile e metaforico, ora
concreto, che comunque approda all’osservazione. E se qualche volta il poeta
lascia trapelare una velatura gnomica (versi come «La realtà incombe comunque»,
«Nessun gesto, nessuna memoria / potranno salvare questi luoghi») non siamo
messi di fronte a un assioma, ma al recupero di quei lacerti che la
frammentarietà e la finitudine tornano ancora a consegnarci dalle profondità
della terra e dal serbatoio, comunque ricco, della storia. Non certezze,
dunque, ma poli di tensione, che confermano quella di Aragno tra le voci più
importanti della poesia recente.
Marco Aragno, Terra di mezzo, postfazione di G.M. Villalta, Raffaelli 2015, e. 12
Abbiamo
difeso la nostra infanzia
in
un pugno di casupole bianche
tufo
aggrappato al dorso della roccia
esposto
al passaggio delle stagioni.
L’abbiamo
difesa in una stanza
riscaldandoci
al fuoco serale
che
riaccende questi volti come faceva
con
le facce dei nostri padri.
Altri,
invece, tentarono la sorte
attratti
dalla grandezza della valle;
violarono
il cuore delle foreste
che
li sedusse col palpito del verde
e
rubò la vita a uomini e animali.
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