Non
ricordo la prima volta, forse perché non ero mai andato a cercarlo.
Probabilmente fu in occasione di qualche lettura pubblica, o in casa di amici
comuni, quando Roma era ancora un subbuglio di cene e di incontri. Ricordo però
una mattina, in un’aula della Sapienza, la sua aria scanzonata, come se stesse
sempre altrove, come se stesse parlando a un io interno piuttosto che al suo
interlocutore reale. Valentino si prendeva in giro così, e pensavamo invece che
stesse prendendo in giro noi. Ma parlava con sé, per un suo preciso bisogno di
chiarezza, per una necessità di messa a fuoco, anche se non sempre si poteva
essere d’accordo. La metafora della scrittura come fotografia, come sviluppo
(prima del digitale) e passaggio dal negativo al positivo, attraverso il giusto
dosaggio degli acidi, mi viene da lui. Me la disse una sera di molti anni fa, e
l’ho fatta mia.
Sembrava
distaccato, Valentino, preso dal dandysmo che si era cucito addosso, o che
qualcuno gli aveva sovrapposto come una patina effimera e divertente solo in
virtù di qualche battuta. L’ironia non deve appartenere alla poesia, dalle
nostre parti. E invece lui col petrarchismo ce l’aveva, e a ragione. Perché un
poeta senza poesia? Piuttosto un poeta senza il poetico, preferirei, e gli si
renderebbe giustizia, ora che ci osserva dall’orizzonte dei morti, dove non c’è
più spazio per la tragedia. Neppure per la sua. Che il destino si sia accanito
sulla parola e sulla scrittura, colpendo la mano e la bocca, ha qualcosa di
tristemente beffardo. Ora che è tornato libero di dire e scrivere ciò che gli
preme, come ha fatto per la sua intera esistenza, potremo tornare ad ascoltarlo
nella vera prospettiva a cui gli sarebbe piaciuto consegnarsi: quella di
qualche scorcio romano, tra ruderi rovine e facciate monumentali, o tra le
cornici di qualche galleria o pinacoteca, dove amava rifugiarsi prendendo
spunto da certi autori anche del passato; poi, per un curioso anacronismo,
leggendo le sue poesie poteva sembrare il contrario, che il quadro prendesse
vita solo nei suoi versi. Prendeva forma così, il suo «museo interiore».
«È
vero, è vero», e non capivo subito a cosa si riferiva. Parlava del sugo.
Eravamo seduti nello spiazzo davanti alla baracca del borghetto Flaminio, la
più famosa in letteratura dopo quella delle periferie pasoliniane. Ci aveva
invitato, me ed Elio Pecora, per farci provare i suoi rigatoni e si era messo a
preparare per noi, lui che si vantava di essere l’arbiter di tante cucine
romane, dalle più umili alle più blasonate. Perché il sugo fosse "vero", e non
semplice salsa, ci voleva il soffritto di cipolla, e la cipolla doveva essere
tagliata sottile, come se dovesse sciogliersi nell’olio bollente. Olio che
doveva essere vero anch’esso, rigorosamente extravergine. Accanto alla pasta,
l’altra ossessione erano le polpette, la cui morbidezza era un’autentica sfida
per i suoi ospiti. L’umiltà della sua vita non nascondeva una cura,
un’attenzione rara ai particolari, e un senso di dignità, ma era tutt’uno con
essi. Dietro certe contorsioni del pensiero, esercizi funambolici dove non era
sempre agile seguirlo, specie quando parlava di lontani scrittori mitteleuropei
che quasi nessuno più leggeva, Valentino era in fondo un uomo semplice, votato
a una semplicità tutta umanistica. Qualcuno può averla scambiata per pigrizia,
e in realtà in tanti anni lui non ha mai svolto un lavoro regolare. Ma cosa c’è
di più regolare, o regolato, della poesia stessa?
Non
potendo vivere di diritti d’autore, sempre scarsi per i poeti, Valentino
praticava il dandysmo come esercizio di resistenza. Col trascorrere del tempo,
anche la sua figura e il suo personaggio sono divenuti anacronistici, e davvero
impensabili. Mi imbattevo sempre nelle sue giacche scure, spesso leggermente
fuori misura, venute da chissà quali guardaroba obsoleti e non suoi. Per lui
che si vantava di non possedere nulla, tranne la sua libertà, girare con un
cospicuo mazzo di chiavi, con il moschettone appeso al passacintura dei
pantaloni, in bella vista, come certi padroni di una volta, o come la
governante di una grande casa, era un po’ una contraddizione, come un’aspirazione
malcelata. Ma si trattava solo di un’impressione. Valentino portava la sua
nobiltà ovunque, tra le lamiere del Flaminio come tra i cortili dei palazzi
dove per lungo tempo era stato invitato, prima che Roma subisse nuove invasioni
e anche la cultura della convivialità fosse confinata in pochi luoghi e
momenti. La città eterna ha perso con lui il suo ultimo Marziale, o il suo
disilluso Petronio. Il basso impero durerà ancora a lungo, avvolgendoci nel suo
silenzio assordante.
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