martedì 10 maggio 2016

AILANTO n. 31 - Su Maria Attanasio



C’è un bellissimo verso di Auden in cui si paragona una crepa in una tazza a un sentiero verso l’Ade; anzi, quella crepa, per il poeta, «apre un sentiero verso il mondo dei morti». Non riuscirei a trovare epigrafe migliore, o più agile chiave di accesso, a questo nuovo libro in versi di Maria Attanasio, Blu della cancellazione, che segue a ben tredici anni il precedente Amnesia del movimento delle nuvole (entrambi per La Vita Felice), avvalendosi di una prefazione di Antonella Anedda. C’è, nella scrittura di quest’autrice – e non solo in quella in versi – il continuo attraversamento di un diaframma sottilissimo tra il mondo delle percezioni ordinarie e una dimensione che solo in superficie sembra appartenere alla storia, ma che piuttosto la trascende; forse è una caratteristica di certi scrittori siciliani, perché un movimento analogo si può riscontrare anche in Sciascia, in colui che parrebbe il più illuminista di tutti, ma che preferisco leggere in una prospettiva antinaturalistica. Questa dimensione ci rimanda a un universo ctonio, stregonesco, fatto di fluidi, pestilenze, inquisizioni, esecuzioni; qualcosa che certamente possiamo riscontrare nel passato storico, se non fosse che in Maria Attanasio è sempre protagonista il corpo, e tutto ciò che lo porta a farsi margine, confine estremo che pulsa e che cerca incessantemente un nuovo confine, parola che scava: «la parola / frontale – che s’inabissa, risale», leggiamo proprio in apertura.
Questo corpo-parola è proprio la crepa tra i due mondi. È grazie ad esso (corpo della poesia, corpo della materia, corpo dell’autrice) che il vissuto può tornare a manifestarsi, in forme spesso visionarie, accentuate da una tecnica che procede per giustapposizione, per accumulo di immagini (e in questo le poesie di Maria Attanasio sono e restano profondamente barocche, nella forma e nella costruzione più che nello stile). Ma si tratta di un vissuto che va oltre se stesso, spingendosi verso altri vissuti che continuano a parlare dal mare indifferenziato della storia, delle storie. Attanasio è davvero un poeta dello scavo, la sua matrice è ungarettiana. Il suo verso s’incunea nei meandri, nelle scissure, risale «il greto della mutazione», asseconda il tempo e le sue metamorfosi solo per diventarne padrone e usarlo a suo piacimento. E l’azione dello scavo si svolge nel buio delle viscere («buio» è termine ricorrente in queste poesie), lì dove pulsa il sangue. A dispetto sia del titolo che dell’osservazione di Anedda, la quale rinviene nel grigio la tonalità dominante del libro, è invece il rosso ad affermarsi – e a confermarsi – come la rappresentazione cromatica più efficace, stravolgente ed espressionistica, del contatto che l’autrice instaura tra vivi e morti. Una delle sezioni più coinvolgenti della raccolta è proprio quella in cui il fantasma materno si manifesta sullo sfondo della guerra, ma non in forme nostalgiche che sono sempre rimaste estranee a Maria Attanasio, quanto nel dissidio, ancora aspro e aperto, tra desiderio e impedimento, tra lotta e oppressione.
È da questa ulteriore «crepa» che la «scrittura disobbediente» di questa poeta recupera una carica, un’energia civile davvero insolita; non per la sua frequenza, ma per gli esiti, che ci insegnano quanto la critica al presente possa svolgersi per simboli o allegorie, nella specie indiretta di uno scavo apparentemente incongruo, eppure coerente. A volte, per vedere meglio, dobbiamo metterci di lato, o, per restare in tema di Sicilia, rovesciare il cannocchiale.

Maria Attanasio, Blu della cancellazione, pref. di Antonella Anedda, La Vita Felice 2016, e. 12.00

(Man-d-orlo)
Dalla cima alle radici
dell’albero dei nomi: il mandorlo
si spezzò in man e orlo – orlo di vita
scucito e ricucito ogni mattina –
la d balbettando volò via.
Taci, trattieni il respiro sorellina,
l’ora delle parole dormienti
si fa vicina, vicina.

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