Mi vado sempre
più convincendo che non esista nulla di più antico del moderno, anche di quello
più tardo. Così, per dire qualcosa sulla poesia oggi, o di oggi, non ho ancora
capito bene, mi accorgo che uno straordinario cortocircuito riporta la
letteratura recente ad atteggiamenti percettivi e a un’ontologia che sembrano
venire dal mondo classico. Anche nelle sue estenuazioni postmoderne, questa
letteratura non ha cessato di cercare il dialogo con una diversa antropologia
che solo approssimativamente potrebbe definirsi pre-cristiana e con più
precisione nietzcheana. Di questa antropologia fa parte quel vasto territorio
mitologico che, tra descensus ad inferos per interrogare se stessi e il proprio
destino, ricerche di un’anteriorità perduta raggiungibile solo attraverso la
lingua dei poeti e ostinati rifiuti alla contemplazione di una verità poco
confortante e probabilmente poco interessante, si riafferma come uno dei luoghi
privilegiati delle scritture contemporanee, siano esse di matrice lirica,
narrativa o drammaturgica. Personalmente non ho mai avuto diffidenza verso l’ovvio
e da antropologo della poesia non posso fare a meno di riprendere da ciò che
ormai, divenuto talmente consueto da sparire alla nostra attenzione, può
apparire deprivato di senso, e invece parla ancora se solo spostiamo il nostro abituale
punto di vista. Pensando alla poesia di oggi e ai suoi rapporti con le altre
espressioni non posso non richiamare una figura di minor rilievo rispetto alle
muse, ma non per questo meno pertinente: una figura mitologica secondaria, un
“dio ulteriore” come avrebbe detto Manganelli, confinato in un ristretto olimpo
per eruditi eppure, nella mia prospettiva, profondamente compromessa con le
dinamiche della poesia ma anche del teatro, che in origine erano una sola cosa.
Parlo di una antica divinità italica, Vertumno, il dio del volgere delle
stagioni, dei mutamenti, delle metamorfosi. Josif Brodskij ne traccia un deciso
ritratto: «sfiorarti è sfiorare / una somma astronomica di cellule: / il suo
prezzo è sempre il destino / e solo tenerezza ha in proporzione»: La radice del suo nome rinvia a
vertere, e quindi al verso. La poesia e il teatro, ad esempio, come arti della
trasformazione: trasformazione del reale per via linguistica, sia essa di
natura verbale o gestuale, che si concretizza nelle variazioni stesse del
corpo, nel trucco e nella mimica.
La poesia di
oggi parla il linguaggio della dissociazione, un linguaggio che si traveste,
con la velocità di Vertumno, fino a mostrarsi come idioma, o enigma, della
dissoluzione del corpo e dell’identità. Proprio nell’epoca delle immagini,
quindi, classicamente, delle illusioni e dei simulacri, nonché nell’epoca in
cui il nemico, il soggetto da sottoporre a un processo critico, è quanto mai
subdolo e poco riconoscibile, avendo preso egli stesso virtù e difetti di Vertumno,
la lingua della scena implode e la parola torna a farsi scavo semantico,
approdando per vie diverse alla poesia, che ritrova, a dispetto di tutto, una
sua pervasività.
All’altro lato
del mio discorso sta un’altra figura classica e non può che essere Antigone. Ogni
volta che le parole di Antigone mi risuonano dal passato, non posso fare a meno
di legare quella pietà alla potenza di una parola, la cui eco inevitabilmente
si spande oltre la volontà di una sepoltura e viene a significarmi quanto del
moto affettivo ricade sul coraggio del rifiuto e sulla opportunità di sottrarsi
al comando. Opportunità è un termine spesso ambiguo, che nella modernità ha
assunto anche il colore oscuro del guadagno personale; è opportuno ciò che
concorre alla difesa dello steccato e degli interessi individuali, nei quali
quasi mai si inverano quelli della collettività. Con il suo gesto Antigone si
pone piuttosto sul versante di una necessità che è, al tempo stesso, sororale
ed eversiva, quindi storica e sociale; una necessità che muove una norma
superiore a qualsivoglia legge, poiché in questo codice non scritto è il luogo
dove individuo e società trovano il vero terreno comune.
Certamente, c’è
una forte spinta emozionale, dietro tutto ciò. Ed è per questo che Antigone mi
appare come una metafora non solo possibile, ma concretamente attiva, di una
scrittura che sappia assestarsi come ipotesi del rifiuto. La naturalezza non è
soltanto scelta immediata di infrangere una legge nella quale non ci si può
riconoscere, dal momento che Antigone non sembra neppure scegliere: agisce,
portata semplicemente, come la sua parola netta e precisa, da un dovere più
antico. E se consideriamo questa naturalezza, appunto, non possiamo non credere
che ogni scrittura netta e precisa, nel lavoro che conduce alla costruzione di
uno stile, sia una scrittura partigiana, sia cioè un atto di per sé
cospirativo, splendidamente inattuale.
Voglio dire,
insomma, che se un lavoro di e sulla scrittura è già, di per sé, movimento di
un pensiero critico, spostamento della percettiva usuale dalla quale ci
affacciamo ad osservare le cose del mondo, allora la poesia, che rappresenta
ancora la sintesi, l’esito più alto di tale movimento, è in ogni sua forma
un’azione rivolta ad aggiungere qualcosa al pensiero della comunità. Anche
nelle sue espressioni più liriche e intimistiche, ciò che continuiamo a
chiamare poesia è un’impresa che ci mette a parte di una stratificazione della
verità, di una complessità comunque circoscritta dalla nostra finitudine e per
questo, sempre e comunque, civile, anche laddove il movente politico può
risultare secondario o addirittura assente. Ma è questo il punto: non può
esserci in realtà alcun movente, non può darsi alcun indirizzo, a rischio di
avventurarsi dentro un progetto destinato ad essere in parte o del tutto
sconfessato.
Non posso
credere alle etichette di genere spesso imposte alla poesia di oggi, perché
ogni atto di vera poesia, nella non-società dell’immagine reificata, della
coazione alla solitudine, è una scelta di posizione: è la scelta di adempiere a
quel dovere antico, di rispondere a quella necessità. Ciascuna parola apre una
voragine di senso e ci allontana sempre più dalla superficie del mondo e dalle
sue incrostazioni, come spinge Antigone, ogni volta che parla, fuori dalle
mura, all’alba, a seppellire il corpo del fratello.
L’eccesso di
metamorfismo diviene sintomo di sparizione, di dissoluzione e assenza. Le
astronomiche cellule di Vertumno sono appena sufficienti a sostenere,
linguisticamente, il netto rifiuto di Antigone, che in effetti si stempera in
un susseguirsi di codici obliqui, di mimetismi coatti, di strategie ora
manifeste ora difensive rispetto allo scenario della storia. Ma è proprio
questa la vitalità del contemporaneo, la sua energia, il suo sprigionare un
senso di non finito anche nel
recinto finito della rappresentazione. Credo che la poesia di oggi, per questa
via, sia penetrata, traslata in un certo modo di fare teatro, nei suoi aspetti
più visibili. Se è vero, come credo, che tra le arti di qua e di là dal
millennio il teatro non solo goda di una evidente felicità espressiva, a
dispetto delle burocrazie, ma sia l’unico luogo, come ricordava Barberio
Corsetti, dove si può esprimere, anche nel silenzio, un pensiero collettivo sul
mondo, ancora una volta questa mi pare un’efficacissima definizione di ciò che mi
piace intendere quando parlo e quando scrivo di poesia.
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