Il Salento è tornato di moda, da
più di un decennio ormai, e questa moda sembra non volersi arrendere al tempo.
Segno della qualità di un territorio, e delle iniziative che ne sostengono la
vita culturale. Sarà la pietra bianca delle chiese e dei palazzi, la luce che
vi si riflette e si irradia nelle varie fasi del giorno; sarà la limpidezza
delle acque, la salute del paesaggio, le tradizioni e la taranta, o il risvolto
dei recenti film di Ozpetek che lì sono stati ambientati, ma questa regione non
smette di sorprenderci e di invitarci. Anche per quello che riguarda la poesia.
A Manduria era attivo un editore “storico” come Lacaita, che molta parte ha
avuto nella promozione delle officine degli anni Settanta; e da almeno un
ventennio il testimone è passato a Piero Manni, che con Anna Grazia D’Oria
pubblica una rivista come «L’immaginazione», tra le più libere e interessanti
del panorama letterario, oltre a diverse collane dove la poesia è
preponderante. Proprio a lui è affidata l’edizione delle plaquette che
traggono origine da una manifestazione forse unica nel suo genere, e che rinvia
a eventi di altri tempi, come il premio «Antico fattore» negli anni trenta (lì
dominava il Chianti): L’olio della poesia.
Accade a Serrano di Carpignano
Salentino. A cominciare dal 1996, infatti, ogni anno poesia e tradizione
agricola si coniugano nel segno dell’olivo. Un poeta è invitato a incontrare il
pubblico, e torna a casa con una buona scorta di ottimo olio locale. Ha
iniziato Sanguineti, e si sono succeduti, tra gli altri, Luzi, Raboni, Magrelli,
De Angelis, Cucchi, fino a Biancamaria Frabotta, della quale oggi abbiamo
l’ultima plaquette, Per il giusto verso.
Scrive il curatore Massimo Melillo nella nota introduttiva che la «poetica di
Biancamaria Frabotta è oggi una delle testimonianze del valore sempre più
attuale dell’agire letterario», e non potremmo che essere d’accordo. Insisterei
proprio su quell’«agire», che da sempre caratterizza e forse condiziona la vita
creativa di quest’autrice, nel segno di una presenza, di una partecipazione e di
un impegno, fin dal suo esordio, di estrema caratura morale. E civile,
naturalmente. Sia che il suo sguardo si affacci sugli eventi della storia,
grande o piccola, sia che ripieghi nella quotidianità della vita domestica e
amicale, da sempre la sua poesia non si è sottratta a farsi punto di
osservazione, prospettiva critica sulle cose del mondo. Frabotta ha saputo
tenersi distante dal facile cronachismo, dal minimalismo intimistico, dal
diarismo che spesso hanno segnato, come limiti, molte delle esperienze poetiche
dei suoi compagni di strada, nonché di quelle più recenti. Oggi un testo come Il rumore bianco si conserva nella sua
piena attualità, e ci auguriamo di poterlo presto rileggere in un Oscar da
tempo annunciato. La patina dello stile, questo cancro che corrode la
scrittura, qui sembra non essersi posata, e la forza di quelle poesie si è
mantenuta intatta.
Ci sono poeti che appaiono sulla
scena con un loro preciso e indistinguibile bagaglio linguistico, a cui restano
fedeli. Due esempi diversissimi, ma evidenti: Penna e Raboni. E ci sono poeti
che nel tempo conquistano una loro fisionomia, che crescono nella storia e ne
registrano i dolori. Biancamaria Frabotta appartiene a quest’ultima specie. La
sua scrittura è davvero cresciuta, ha conquistato nuovi spazi, ha inglobato
nuovi temi, restando coerente con un mandato interiore. Ha ampliato le sue
maglie, così che un mondo ha potuto entrarvi e riuscirne trasformato dallo
sguardo del poeta. E dietro ogni immagine, noi possiamo cogliere una precisa
metafora del viaggio che abbiamo compiuto, di quello che ci aspetta, in quella
straordinaria empatia che solo la poesia sa costruire. Prendiamo i versi
intitolati Il silenzio della bicicletta:
Sembra che tocchi il pedale
le nascoste radici dei pini
la strada stretta fra i campi
la fossa al bordo degli ulivi
lo sterco di cavalli, o di mucche
il nostro andare fra alti e
bassi.
Ascoltiamo, fra i toni di verde
il silenzio della bicicletta.
“Siamo alla frontiera e dietro
me non c’è nessuno”.
Parlavo senza pensare se tu
mi udivi, nella quieta volata
fra vetrine scintillanti di ali.
Ci aspetta una prova di guerra
di parole taglienti scambiate
efficienti, già pronte ad agire.
Ascoltiamo, come su un’isola
il silenzio delle biciclette.
L’infinito aculeo della pace
perduta.
Anche qui la situazione evocata
travasa dal privato allo storico. Basta un’immagine veloce, una pennellata
rapida, come una pedalata, e gli spettri della storia tornano ad affacciarsi
intorno a una minaccia incombente. Il linguaggio sta per farsi ostile, ma
questa dimensione è solo annunciata. Intanto la «pace perduta» è un dolore che
non cessa e che non ha misura. Un «infinito aculeo». Quella che potrebbe
sembrare una fuga è invece un incontro prossimo e drammatico, a cui non è dato
mancare.
Nella plaquette Frabotta ha
voluto inserire, come «omaggio», quattro traduzioni da Emily Dickinson. Non mi
ero ancora imbattuto in questa fisionomia dell’autrice, ma non resto sorpreso
più di tanto: queste versioni non mancano di notevole sintonia con il suo
orizzonte creativo. Lo dilatano nel tempo, a ritroso. Come scrive Antonio
Errico nella nota conclusiva, le parole di Biancamaria Frabotta «hanno la
verità dentro ogni sillaba, sono le rughe di tutta la vita».
Bellissimo contrasto tra quel "ci aspetta una prova di guerra " e "il silenzio delle biciclette", la frattura tra due mondi e due età di cui Bianca Maria è nettamente testimone e interprete. Chi sia quel Tu è ininfluente (poetesse amiche scomparse, dialoghi con l'amato ?), di certo alla frontiera "non c'è nessuno ", dopo sereniani trascorsi l'oggi è mutato, umanamente, e antropologicamente in impoverimento - di orizzonti e di voci - Ecco che Bianca ne ha serbato memoria, e SA. Grazie, Roberto e grazie Biancamaria, Maria Pia Quintavalla
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