Nelo Risi se n’è andato.
Silenziosamente, senza clamori, com’era nel suo stile rigorosissimo. Uno stile
che condivideva con un altro grande lombardo, Luciano Erba. Pazienti,
meticolosi artigiani della parola, entrambi, ma nel senso più nobile. Attenti
alla musica, alle “risonanze” (titolo di un libro di Risi degli anni Ottanta)
interne del verso, e a quelle ancora più interne dell’individuo. Eppure non
riuscirei a condensare in una facile formula il loro percorso; se dovessi
spiegare il nucleo della loro poesia, mi troverei piuttosto di fronte a un
caleidoscopio di temi. Se Erba, per me, è stato soprattutto il poeta della
tenerezza, dell’ironia, dell’amore, Risi ha avuto una presenza più sfumata.
Alla “linea lombarda” come milieu
poetico non ho mai creduto fino in fondo, e del resto Risi aveva eletto Roma a
sua dimora, condivisa da sempre, nonostante gli alti e i bassi di una
lunghissima vita coniugale, con la scrittrice Edith Bruck, una delle più acute
testimoni degli orrori del nostro tempo. Ma qui, evidentemente, non è più
questione di geografie letterarie. È tempo, piuttosto, di rileggere.
L’ho incontrato nei primi anni
Novanta, e più di recente mi ero battuto perché avesse il Premio Mondello (e lo
ebbe con Ruggine, nel 2004, nella
bella edizione del trentennale del Premio). Ma i riconoscimenti non gli erano
mancati, anche se sugli ultimi libri (e lo stesso, tristemente, accadeva anche
per Erba) era sceso un silenzio sinistro. Mondadori, grazie alla tenacia di
Antonio Riccardi, proponeva tutta la loro opera in due Oscar importanti, e i
loro nomi erano sempre presenti nelle antologie storiche. I veri bilanci, però,
sono ancora da farsi, e troppa polvere si è alzata nelle vicende della poesia
italiana: il lavoro critico, su questi due autori, è ancora tutto da avviare e
c’è molto da rivedere in ciò che è stato scritto. Troppe caselle fittizie,
troppi steccati inutili sono stati inventati nel tentativo di mettere ordine;
ma la poesia non ha bisogno di questo, ha soltanto bisogno di ascolto. E della
disposizione ad ascoltare senza pregiudizi né collocazioni frettolose e
semplicistiche. L’ulteriore scarto dei due ultimi libri è notevole, in Risi, a
riprova non di una maniera ma di una inesaurita vitalità.
Potrei sceglierne tante, tra le
poesie di Risi, ma questa è quanto mai attuale, tragicamente attuale. Si
intitola Neri, ed è tratta da Mutazioni (1991):
Impediti di esprimersi al meglio
li vorremmo a sudare per noi
in lavori di accatto
E che delimitino i loro spazi
tanti spruzzi di orina
sul territorio
Fatti animale! viene di pensare
se vuoi essere uomo
Soffocati sul nascere
un nido coperto da un panno.
Vorrei chiudere non solo con questa poesia, ma con una dichiarazione di fiducia estrema nella poesia come
lavoro e come dono. Ci aiuta a riflettere anche sulla memoria dei nostri poeti.
Quando, nel 1994, Mondadori pubblicò una sua auto-antologia, Il mondo in una mano, Nelo volle
premettere un suo scritto che termina con queste parole: «ogniqualvolta nella
vita ho dovuto sostenere uno sforzo fisico al limite delle mie capacità o una
prova non programmata – marcia estenuante, insonnia forzata, condizione coatta
o di pericolo prolungato – sempre la memoria mi ha soccorso riportando dei
versi, anche solo un frammento scolastico ripetuto all’infinito, che mi hanno
permesso di superare paura e stanchezza come al bimbo che fischietta nel buio
del bosco per darsi coraggio».
Addio a questo grande Pollicino che ha sempre saputo come ritornare
dal fondo del bosco.
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