Per le (sempre) meritorie
edizioni on-line della rivista «La Recherche» (www.larecherche.it) , è apparso nello
scorso autunno un piccolo ma denso e-book di versi, intitolato Due minuti all’ombra. L’autore è un giovane
palermitano, Davide Gariti, che con questa pubblicazione è al suo esordio in
poesia. Premetto che il nome di Gariti non è frequente nelle cronache poetiche,
sia per un suo certo gusto di distillare la sua presenza, sia perché è la prima
volta che si affaccia su questo universo attraente, quanto instabile e spesso
umorale, esponendosi al confronto e al giudizio dei lettori; i quali, stando ai
numeri dei downloads, non stanno venendo meno. Il segnale è confortante: la
rete funziona, nonostante tutto, e lascia ancora filtrare esperienze di
spessore, come questa.
Ho seguito la vicenda umana e
poetica di Davide, il suo inesausto cercarsi e interrogarsi anche nelle parole
altrui. La sua necessità di misurarsi con quanto gli sta intorno, nel bene e
nel male, è davvero disarmante, e parla il linguaggio di una profonda
limpidezza interiore, di un naturale disporsi ad accogliere le sollecitazioni
del mondo esterno, anche quando disturbano, quando provocano scossoni inattesi.
C’è, nel ritmo dei suoi versi, qualche segnale di queste improvvise sorprese e
questo significa, per me, che la sua poesia cerca di stare alla sua vita in
quella che Saba definiva l’«onestà» dei poeti, concetto che spesso, troppo
spesso, è stato infelicemente trascurato o addirittura frainteso. Il ritmo di
Davide, così apparentemente piano, è visitato da queste piccole perturbazioni
che appartengono al suo sentire e ne fanno qualcosa di mobile, di vivo. Già
nella poesia d’apertura il lettore può facilmente avvertire quei minimi stacchi
che aprono universi e vertigini, dietro una quiete che sembra facile: «Due
minuti all’ombra / di una tettoia provvisoria / pestando il seme che andrà /
giù, nel ventre della cura / a guardarti, a toccarti / respirando la terra /
esplodendo di germogli». Pochi versi, quasi un appunto veloce, un bozzetto,
eppure tutto è così astratto e l’immagine iniziale, che fissa un’abitudine
quotidiana, un momento forse della stagione estiva, finisce invece con un più
ampio rito della natura, rivisitato in chiave metaforica.
Sono proprio questi scarti a dare
ragione della densità di cui Davide si è nutrito e continua a nutrirsi, dietro
la falsa chiarezza dei suoi versi; che non restano bozzetti in virtù di queste
virate verso le regioni di una personalissima trascendenza, ovvero della
capacità di portare il mondo e reinventarlo dietro
le proprie parole. C’è sempre qualcosa di più, dietro le descrizioni o le
micronarrazioni di queste poesie: un’inquietudine di fondo, che non sa
rassegnarsi né estinguersi, ma che Davide sta imparando a calibrare con una
certa sapienza. La sapienza del distacco. Mai indifferente, il poeta osserva il
mondo e lo attraversa per poterlo cantare, ma la sua visuale è sempre una
misura precisa, un necessario mettere a fuoco. È lungo quella misura che Davide
trova i motivi del suo fare poesia.
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