Mi hanno chiesto perché sono
stato in silenzio per tanti anni. Li ho ascoltati tra perplessità e stupore e
se ne sono accorti. Hanno continuato a non capire, o hanno fatto finta. Forse è
vero, mi sono detto: questa è la loro impressione, la vedono in questo modo.
Sono uno che è stato in silenzio per tanti anni, una parte di verità deve pur
esserci. Nella mia parte di verità, però, vedo anni di letture, di studio, di
altre scritture. E di libri dedicati alle scritture altrui. Ho dato una mano al
“farsi” della poesia dall’altra parte, da quella del lettore, perché c’è sempre
bisogno di questo. Quindi mi viene difficile riconoscere il silenzio. Non ho
smesso di scrivere poesie e non ho neppure smesso di pubblicarne nei luoghi più
disparati: più semplicemente, per tanti anni, ho sentito di non essere pronto
per un nuovo libro. Ho sentito, anche, che non era il momento per un libro
“mio”, per come avrei potuto concepirlo. Si alza sempre molta polvere, in
poesia, ed è naturale che me ne sia entrata un po’ negli occhi. Non ho visto
più con chiarezza, ma ho pensato che dipendesse anche da me. Ho cercato di accogliere
le mie sensazioni e allontanavo il momento del confronto, perché un libro
impone (o dovrebbe imporre) un confronto onesto. Onesto non vuole dire soltanto
leale e disinteressato: vuole dire anche, per quanto possibile, obiettivo,
calibrato. Il confronto è anzitutto misura, e la misura è fatta di competenza e
di distacco.
Invece ho ritardato a dis-misura
quel momento, prendendomi per debole, e di anno in anno anche il progetto di
libro che avevo in mente si è fatto sempre più fluido. Ne ho avuto anche
timore, qualche volta. Ciò che
andavo scrivendo si accumulava tra i cassetti e il computer, diveniva qualcosa
di indefinito e di fantasmatico, una presenza che rimandava a una sola
richiesta: trovare il coraggio di fare ordine, di ritrovare i fili che credevo
perduti per sempre, e rimettere le mie mani in quelle del lettore. Gli editori
dei miei primi libri di poesia, nel frattempo, chiudevano o attraversavano crisi
da cui non si sarebbero più riavuti, o da cui sarebbero usciti con nuove
fisionomie. C’era anche un problema esterno, dunque: rischiavo di avere perso
il mio tramite con il lettore, e delle occasioni del web non c’era ancora da fidarsi.
Ma proprio perché la letteratura è un’attività sociale, e anche quando ci
illudiamo di essere da soli non lo siamo mai fino in fondo, il sistema di cui
facciamo tutti parte si è mosso nella mia direzione: ho ricominciato a
verificare certe libertà critiche e sono tornati disponibili spazi che solo poco
tempo prima non avrei sentito tali. Il primo segnale, ancora lontano, mi venne
da Antonio Riccardi, che mi chiese apertamente un libro. Erano trascorsi ancora
pochi anni da quando era apparso Il primo
orizzonte, così quell’idea si fermò lì, per me; a breve si sarebbe
tramutata in un progetto su cui lavorare in attesa del momento giusto. Alcune
poesie di Solstizio furono anticipate
sull’Almanacco dello Specchio nel
2007; il fantasma iniziava a prendere forma. Avrei fatto passare, però, altri
sette anni, prima di vedere il libro. Questo temporeggiare mi ha fatto
iscrivere nella classe degli “appartati”: e anche se continuo a ritenerlo un
participio passato, ovvero l’effetto di una causa, il senso sociale non cambia.
L’importante è non scambiare la causa con l’effetto: è sempre il primo alibi
dei recensori, diciamo così, distratti.
Come si è costruito, nel tempo, Solstizio? Intorno a una vicenda,
intorno alla mia vita. Il primo orizzonte
è stato il libro del mio saluto a Roma; lasciavo la mia città di sempre un po’
con il senso dell’esilio, un po’ della sorpresa. E per necessità: andavo in
Sicilia per insegnare. Palermo, Enna e altri luoghi sono divenuti negli anni la
geografia di questo esilio e di questa lontananza e non mi ha sorpreso
ritrovarli spesso nei versi che scrivevo. C’è stato un innamoramento in qualche
modo forzato, al principio: l’altra faccia del vero mi portava a considerare
Palermo come una specie di terra promessa. I viaggi tra Roma e la Sicilia sono
divenuti il sostrato profondo di Solstizio,
riconosciuto e reinterpretato attraverso alcune figure bibliche. Da Palermo,
oltre Roma, avvertivo il bisogno di ricongiungermi con delle origini ancora più
lontane e tutto sommato salde.
È stato scritto che il solstizio
del mio titolo ha a che fare con l’alternarsi delle stagioni, di luce e ombra.
È anche così, naturalmente. Ma il solstizio è quel momento, illusorio, in cui
il sole sembra fermarsi, sospendersi. In quella sospensione illumina le cose
degli uomini di un biancore diverso, come se le mostrasse per la prima volta.
Per questo, tra i miei profeti e patriarchi, manca la figura che più mi
riguarda da vicino: quella di Giosuè, che sconfisse il nemico proprio perché il
sole si era fermato nel cielo, impedendo l’arrivo della notte e consentendo la
conclusione della battaglia. Giosuè non c’è perché è l’autentico leit-motiv del
libro, il suo collante, ciò che ne ha deciso e orientato la struttura, facendo
di tutto il materiale accumulatosi negli anni un discorso possibile. «Finché il
Sole / risplenderà su le sciagure umane», scrive Foscolo chiudendo i Sepolcri. Questa luce di battaglia è
divenuta per me luce altalenante, tra la partenza e l’arrivo. Mi sono sentito
spesso come la statua di sale in cui si era tramutata la moglie di Lot, quando
s’era voltata per guardare la distruzione di Sodoma e Gomorra; o come il
protagonista di un racconto di Kafka, un abile trapezista, stella del circo,
che improvvisamente scopre di avere bisogno di un secondo trapezio, e in quel
bisogno rinviene la fine della gioventù. È questo, il discorso di Solstizio, fatto di spostamenti,
dislocazioni, perdite e riconquiste, attraverso la poesia. Solo lei, la musa,
poteva chiudere il libro, in attesa del suo ritorno.
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