Esiste, da qualche anno, una
compagnia di poete. Anzi, una Premiata Compagnia delle poete. Un ensemble di
donne poeta, di diversa nazionalità, che s’incontrano su terreni comuni e
allestiscono, tra parola, movimento, gestualità, musica, delle performance, dei
veri e propri spettacoli.
Che può significare tutto questo,
oggi, che senso può avere una simile operazione? E come si svolge, di fatto,
l’attività di questa Compagnia, anche al di là dei progetti e delle intenzioni?
Vorrei tentare qualche
riflessione a più ampio raggio, cercando di inscrivere questa esperienza in una
prospettiva forse più pertinente di quella della sola poesia performativa. Oggi
che la prassi letteraria è sempre più riconosciuta come sistema, anzi come polisistema dinamico, in continuo
movimento, è evidente che le sue metamorfosi ricadano su ciascun elemento del
sistema, turbandone ciò che riconosco come il suo sonno identitario.
È uno dei grandi paradossi – o
delle grandi contraddizioni – a cui accade di assistere. Da un lato ci sono fenomeni
centripeti, pur diversi tra loro, come la globalizzazione i flussi migratori;
dall’altro, a fronte delle inevitabili trasformazioni dei modelli culturali che
tali fenomeni provocano, si avverte l’arroccarsi su posizioni che hanno chiari
limiti ideologici e teorici, specie se ne consideriamo la dimensione nazionale,
o addirittura infra-nazionale. Da parte mia resto convinto che chi continua a
discutere affannosamente di canoni e identità, in letteratura, e dall’interno
delle prospettive nazionali, non solo non abbia compreso cosa significhi la libertà per un artista moderno (termine,
quello della libertà, che ritrovo felicemente tra le pagine di poetica della
Compagnia delle poete: pagine di poetica libera),
ma che abbia anche difficoltà a comprendere la complessità del presente e la
dimensione pluriculturale in cui ci troviamo. Temo, infine, che questo
arroccarsi non permetta di inquadrare la portata effettiva dei problemi posti
dalla letteratura odierna e che il modo di trattare tali problemi sia condizionato
da visioni non più condivisibili, ormai estranee ai modelli espressivi,
comunicativi, ermeneutici della modernità.
Non sussistendo più poetiche
normative, com’era nell’età della tradizione, definitivamente pensionata dalle
avanguardie (ed essendo Dio morto, nel frattempo), mi chiedo che valora possa
avere, oggi, tornare a parlare di canone. I principali attori della discussione
sono, perlopiù, presi dal problema di cosa inserire negli aggiornamenti dei
loro manuali scolastici. Quanto all’identità, mi sembra che sia completamente
trascurato l’aspetto dialogico-narrativo e anche mistificante della questione.
L’identità non è una monade, ma un problema che si articola attraverso tre
livelli: ciò che si vuole essere, ciò che si vuole mostrare, ciò che l’altro
percepisce di noi. Ecco il cuore del problema: l’identità come narrazione
all’altro. Senza questo interlocutore non esistono identità, ma monadi
destinate a un desolato solipsismo; senza questo interlocutore, ogni rilievo in
merito all’identità si rivela una triste tautologia.
Penso, in particolare, alle
letterature della migrazione: non dovrebbero più esistere come categoria a sé,
ma dovrebbero far parte del polisistema che chiamiamo – seppure impropriamente,
considerati i fenomeni a cui ho fatto accenno – “letteratura italiana
contemporanea”. Un polisistema decisamente e fecondamente arricchito dagli
apporti – di lingua e di immaginario – di autori che hanno scelto l’italiano
per esprimersi, pur non essendo la lingua del loro modello culturale di partenza,
ma che attraverso questa scelta contribuiscono alla creazione di un nuovo e più
ampio modello transculturale.
Siamo trascorsi, negli ultimi
cento anni, dall’«Io è un altro» di Rimbaud a «Io è gli altri»; e questa
necessaria, inevitabile pluralizzazione – che risponde anche, e non solo, ai
movimenti della Storia – si è ulteriormente evoluta in un’affermazione che
potrebbe essere proprio la risposta a un processo di narrazione identitaria.
Raccontami chi sei: io è più altri, diversi altri.
Credo che questa possa essere la
vera fotografia della letteratura attuale, nei cui margini ben si inserisce
l’attività della Compagnia delle poete. Leggendo le loro dichiarazioni di
poetica (ma temo che, quanto a “dichiarazione”, si tratti di un termine
improprio) mi accorgo che dietro deve esserci stata la richiesta implicita di
ricondurre il lavoro a tre parole chiave. Cerco di ripercorrerle. Per Mia
Lecomte queste parole corrispondono a “casa”, “famiglia”, “libertà”, e preciso
che è la terza a sostanziare le prime due. Helena Paraskeva identifica le
tensioni della sua scrittura con il vento del Meltèmi, vento dall’azione
ossimorica. Jacqueline Spaccini parla di “singolarità”, “insieme”, “gioia”;
Sally Read di “lingua”, “vita”, “corpo”. E quest’ultima parola ritorna tra
quelle proposte da Brenda Porster: “corpo”, “ponte”, “scoperta”. Ancora
“libertà”, ancora “corpo”, e “corridoio” (possibile alternativa di “ponte”)
sono nei versi di Laure Cambau. Eva Taylor specifica ulteriormente l’immagine e
parla di un ponte Bailey, «quello che sembra provvisorio ma rimane». Candelaria
Romero parla di “viaggio”, “compagnia”, “avventura”; Barbara Serdakowski di
“senso”, Adriana Langtry di “specchio”, “sponda”, “segno”. Infine Barbara Pumhösel
e Melita Richter si rifanno, rispettivamente, alle parole “equilibrio”, “filo”,
“sinestesia” e a “Europa”, “paese”, “fuori orario”. Traggo queste informazioni
dal libro di Francesco Armato, Premiata
Compagnia delle poete, edito da Iannone.
Questo pur rapido elenco di
parole-concetto è davvero un sistema. Molto compatto, aggiungereu, in cui le
immagini travasano di poeta in poeta ma restano in definitiva ancorate a quel
concetto mobile e plurimo di identità da cui ho preso le mosse. Raccontami che
sei. Io è un ponte, un corridoio, che chiunque può percorrere alla ricerca di segni e sensi, spinto da
un inarrestabile Meltèmi, che distrugge – o vorremmo che distruggesse – i
nostri pregiudizi e le nostre certezze così relative, facendo delle nostre
esistenze non dei dogmi ma un bene da condividere, un tesoro da spartire, e che
più spartiamo più ci fa ricchi.
Allora l’attività di una
Compagnia delle poete non è solo la benvenuta, ma diviene anche necessaria,
poiché si fonda sul dialogo, sull’assimilazione, sul contagio. Vorrei che
fossero definitivamente trascorsi i tempi – tristissimi – in cui autori
provenienti da altre culture, portatori di vitalità e fermenti, sono stati
rimossi, come se non fossero mai giunti qui. Penso fra tutti a Juan Rodolfo
Wilcock, argentino, che dagli anni Cinquanta alla morte, nel 1978, è vissuto in
Italia, ha partecipato al dibattito letterario, ha scritto in più generi libri
dominati da un’ironia sapiente. Difficilmente lo troverete nei manuali di
letteratura, se non in qualche nota marginale, magari come traduttore di
Marlowe e di Joyce.
Questo modo di storicizzare non è
più tollerabile, perché, semplicemente, non è vero, non rispecchia la vivacità
di quanto accade. Grazie, allora, alla Compagnia delle poete, per il lavoro di
ricucitura culturale che vanno compiendo: un segnale fondamentale, che ci viene
dalle donne.
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