A soli due anni da Carte da sandwich, apparso nel 2013 da
Einaudi, Attilio Lolini ci sorprende con una nuova raccolta di poesie, Bestiario gotico. La sorpresa è proprio
in questa rapidità: Lolini appartiene a quella schiera nobilissima di autori
appartati, un po’ schivi e un po’ caustici, ironici e sornioni, che dispensano
con estrema saggezza – e con parsimonia – l’arte della sprezzatura. Di se
stesso ha sempre dato una definizione, quella di “vice-poeta”, decisamente in
linea con il suo libro precedente: Carte
da sandwich si rifaceva a quella serie di titoli all’apparenza sottotono,
falsamente minimalistici (ricordo le Poesie
per incartare l’insalata di Michele Serra, fra i tanti possibili, ma con un
distinguo fondamentale: Serra è un umorista – un moralista? – che in
quell’occasione si è prestato alla poesia, Lolini è invece un poeta con una
spiccata cifra comica) attraverso cui la poesia ci lancia un indiscutibile segnale
di presa di coscienza critica. Parlare del presente, di questo presente, è cosa davvero ardua per chi non scelga la strada
del solipsismo lirico, della cronaca sentimentale. E parlare chiaro, in una
lingua che non si arrocca dietro facili orpelli retorici o giochi manieristici,
ma che riesce ancora a costruire un’immagine plausibile del mondo anche e
soprattutto ricorrendo a un istituto desueto come quello della rima (rima che è
sempre in Lolini il modo di rendere e chiudere un pensiero, accanto all’immagine)
è impresa ancora più difficile.
Lolini però vince sempre la sua
scommessa e anche questo Bestiario gotico
ne è la felice controprova, anche rischiando qualche effetto straniante. Dagli
scenari talvolta asfittici del verso contemporaneo il lettore ha l’impressione
di calarsi improvvisamente in una lingua che mima quella di certa poesia fin-de-siècle, tra Otto e Novecento. C’è
un certo tono scanzonato, un po’ da poeta maudit
e un po’ da osservatore irridente: un Palazzeschi senza liberty, capitombolato
all’indietro, un po’ Lucini e un po’ Lautréamont, o Corbière, non senza qualche eco da Apollinaire; o
forse precipitato in avanti, tra le stravolte capriole di una comica del cinema
muto. Il tutto, come sapientemente diceva Orazio, per fare secco il futuro ed
esorcizzare – come in altri luoghi recenti della poesia di Lolini – anche la
vecchiaia, il decadimento fisico, infine la morte. Ma dietro questa traccia
personale, la realtà preme da ogni parte, incombe nel pensiero del poeta e si
traveste spesso da apologo, da favoletta allegorica (allegorici sono moli di
questi titoli, che sembrano talvolta esprimere un enigma, un rebus), e induce
l’autore a mimare un’andatura da filastrocca, portata fin quasi sulla soglia
del nonsense. E proprio qui, sul
limite estremo di questa soglia che Lolini si sforza di non varcare mai, accade
che l’allegoria si disveli e che dietro questo bestiario così inquietante,
fatto di peli e di grassezza, il passato divenga solo una «mesta fantasia» e il
presente torni a parlare in tutta la sua sconcertante tristezza, mostrando il
mondo per ciò che è: «vuoto e tondo».
Attilio Lolini, Bestiario gotico,
L’Obliquo 2014, e. 11,00.
Destriero
Cantano le ore
con voce afona
e stonata
cantano alla luna
arrotolata
il pianeta s’è fatto trasparente
dentro non c’era niente
se ne va il pensiero
sopra un macilento destriero
porta da qualche parte
la nostra inutile arte.
la nostra inutile arte.
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