Si torna spesso a discutere, nei
salotti o in quei salotti camuffati che sono spesso i convegni letterari, se
sia più grande Elsa Morante o Anna Maria Ortese. Il gusto italiota predilige la
fazione, la creazione di partiti, la divisione al posto del confronto. Tutto
ciò, naturalmente, senza alcuna vera base critica, ma solo per il piacere di
difendere una scelta che nasconde una questione di identità: sia che si tratti
di semplici lettori, sia che si tratti di scrittori e poeti. A quel punto
Morante e Ortese non valgono più di per sé, ma divengono dei feticci, delle
proiezioni. Di che cosa? Della generale insicurezza che domina non solo le
categorie della letteratura, ma anzitutto di chi la fa o pretende o presume di
farla. Intanto perché la sfida resta confinata nel ghetto ideale, ma
inesistente, delle scritture femminili. Non mi è mai accaduto di sentirmi
proporre paragoni, che so, con Gadda o con Calvino. Morante può solo gareggiare
con Ortese, e viceversa, all’insegna di quell’altro luogo comune che vuole le
narratrici più grandi dei loro colleghi maschi. E comunque in un mondo a sé.
A dire il vero, queste due figure
hanno molto in comune. Certo, si obietterà, per quanto è tormentata, fosca e
torbida l’una, l’altra risulta folle e visionaria, ma tutt’e due hanno lo
sguardo rivolto nella stessa direzione. La loro cultura, e l’immaginario che essa
veicola, sono nel meridione. Non conoscono i rigori del Nord, la tensione della
pagina di Lalla Romano, la velocità e la sintesi di Natalia Ginzburg, la loro
essenzialità. Traboccano, invece, di ansia generosa. Sono spagnole, più che
italiane. Sono barocche. La loro speranza è il riscatto oltre la realtà. I
personaggi di Elsa Morante scontano una mancanza, un’imperfezione di fabbrica:
pagano il loro eccesso, di passione o di ambizione. Quelli di Anna Maria Ortese
sono invece allegorie, creature
fantastiche offese dal presente o dalla Storia, relegate ai margini, eppure
nella loro voce inespressa – voce di cui si va invano alla ricerca - è il senso
del mondo intero. Assumono la loro sostanza dalla natura, dove la legge non ha
nulla di umano e neppure riguarda il destino, perché nella natura non esiste il
tempo e dunque non c’è alcun fine. Sono l’iguana, il drago, il cardillo, il
puma. I personaggi morantiani si adagiano, quasi si cullano nella loro tara;
quelli che ne sono esenti, o che riescono ad affrancarsene, sono relegati al
ruolo di narratori o ad uscire di scena. Perché tutto l’universo narrativo di
quest’autrice si nutre del suo stesso solipsistico difetto, o della sua stessa
colpa, non fa differenza. Il problema, evidentemente, non è la loro grandezza,
la loro rispettiva altezza. È dove guardano, con gli occhi di chi. Una è
Cervantes, ha la sua ostinazione, il suo idealismo: rompe lo schermo diafano
della realtà e ne affronta fino in fondo le conseguenze, fino all’abiezione.
L’altra è lo schermo diafano della
realtà. È Calderon.
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