Gazzetta di Parma, 15 agosto 2014 |
sabato 30 agosto 2014
venerdì 29 agosto 2014
Alessandra Pacelli su Solstizio
Apparsa su «Il Mattino» dell'11 agosto:
Poesia
Nel
«Solstizio» di Deidier
con
Mosè, muse e trapezisti
Alessandra Pacelli
«Nel pieno della notte ognuno
attende / la sua aurora boreale». È con grande compostezza ed equilibrio
formale che Roberto Deidier dà forma alle inquietudini, all’analisi interiore
di figure di altri in cui si specchia, in cui cerca il senso dell’essere uomo.
Come il trapezista a cui dedica nove poesie: colui che ha scelto l’aria alla
terra, sempre in bilico, che traffica con il vuoto, una sorta di Barone
Rampante traslato in un circo. Oppure gli «incontri in differita» con Mosè,
Abramo, Rut, il bellissimo doppio ritratto che Davide e Golia si rimandano l’un
l’altro, Salomone («Non mi accorgevo che ogni giorno / era una perdita e non una
conquista», profeti e patriarchi tutti ripescati da «La fossa dei leoni». E poi
la sezione dedicata a una Musa forse in fuga, che in extremis cerca di
richiamare a sé e alla quale confessa: «Non ho che questi versi da
intrecciarti». Insomma è un libro denso e maturo questo Solstizio (Mondadori, pagg. 165, euro 16), che in modo pacato ed
elegante conduce il lettore a guardare oltre la cornice immateriale dei nostri
precipizi. Tra le righe c’è il desiderio di abitare la vita senza riuscire a
farlo fino in fondo, forse frenati dalla paura di avere paura, dalle ferite che
rinascono o dalla consapevolezza desolante della propria finitudine: «Sono
fermo non so dove e non ho occhi».
martedì 26 agosto 2014
Arnaldo Ederle su Solstizio
Una recensione di Arnaldo Ederle, apparsa su «Bresciaoggi» il 18 agosto:
Roberto Deidier, romano, vive tra Roma e la Sicilia dove insegna all'università. Il suo nuovo libro, Solstizio (Mondadori, 166 pagine, 16 euro) è corposo, diviso in sei sezioni.
«Dicono morte l'istante della morte/ E la sua sterminata sospensione,/ Soglia e stanza infinita/ Dove i passi non coprono misure»: come si vede da questi versi, l'autore ha la chiarezza e la luminosità espressiva della classicità. Fra tutte le sezioni la più importante nella trama del libro è «Il secondo trapezio», ispirata a un racconto di Kafka, dove la precarietà del trapezista ben simula l'altra precarietà, quella esistenziale.
All'inizio di alcune parti della raccolta, assolutamente compatta e idonea ad essere chiamata propriamente libro, si legge una poesia, un vero e proprio esergo, scritto in corsivo, che ne anticipa il contenuto generale, e suggerisce lo spirito dell'intera sezione. Un artificio davvero funzionale che favorisce la continuità del racconto intimo che il poeta, nella vita che espone, forma con il materiale del suo ricercare e della sua continua attenzione alle cose che egli ritiene fondamentali nella sua esistenza: «Folla del primo mattino, folla senza rumore/ Cedi il passo agli ospiti festosi/ Voi che portate il peso di ogni giorno/ e fate i miei sogni più leggeri,/ Non gravare di fatica le mie spalle/ di dolore le mie braccia». Deidier è poeta del dettaglio, descrittore caparbio di tutto ciò che a prima vista non compare all'osservazione dell'uomo, ma che sta sotto o imbrigliato nella matassa del vivere come parte fondante dell'esistenza, osso duro della sua essenza e della sua forma.
Deidier insegue queste figure di tutta una vita nelle sue più intime sfaccettature, nei suoi tratti più evidenti al suo sguardo e alla sua fine sensibilità con l'acume di pensiero e di scelta che lo distingue: «Frontiera aspra e indistinta/ Rinarra paure sconosciute:/ I piedi confitti nel suolo,/ L'affondo alle Madri che inghiottono/ I figli spinti troppo avanti./ E improvviso il ricordo di quanto/ Quella loro esistenza sia preziosa».
Come il trapezista di Kafka sa volare sui casi della vita
Roberto Deidier, romano, vive tra Roma e la Sicilia dove insegna all'università. Il suo nuovo libro, Solstizio (Mondadori, 166 pagine, 16 euro) è corposo, diviso in sei sezioni.
«Dicono morte l'istante della morte/ E la sua sterminata sospensione,/ Soglia e stanza infinita/ Dove i passi non coprono misure»: come si vede da questi versi, l'autore ha la chiarezza e la luminosità espressiva della classicità. Fra tutte le sezioni la più importante nella trama del libro è «Il secondo trapezio», ispirata a un racconto di Kafka, dove la precarietà del trapezista ben simula l'altra precarietà, quella esistenziale.
All'inizio di alcune parti della raccolta, assolutamente compatta e idonea ad essere chiamata propriamente libro, si legge una poesia, un vero e proprio esergo, scritto in corsivo, che ne anticipa il contenuto generale, e suggerisce lo spirito dell'intera sezione. Un artificio davvero funzionale che favorisce la continuità del racconto intimo che il poeta, nella vita che espone, forma con il materiale del suo ricercare e della sua continua attenzione alle cose che egli ritiene fondamentali nella sua esistenza: «Folla del primo mattino, folla senza rumore/ Cedi il passo agli ospiti festosi/ Voi che portate il peso di ogni giorno/ e fate i miei sogni più leggeri,/ Non gravare di fatica le mie spalle/ di dolore le mie braccia». Deidier è poeta del dettaglio, descrittore caparbio di tutto ciò che a prima vista non compare all'osservazione dell'uomo, ma che sta sotto o imbrigliato nella matassa del vivere come parte fondante dell'esistenza, osso duro della sua essenza e della sua forma.
Deidier insegue queste figure di tutta una vita nelle sue più intime sfaccettature, nei suoi tratti più evidenti al suo sguardo e alla sua fine sensibilità con l'acume di pensiero e di scelta che lo distingue: «Frontiera aspra e indistinta/ Rinarra paure sconosciute:/ I piedi confitti nel suolo,/ L'affondo alle Madri che inghiottono/ I figli spinti troppo avanti./ E improvviso il ricordo di quanto/ Quella loro esistenza sia preziosa».
Comisso e Penna
Leggo e rileggo Comisso. Ho
portato con me il “meridiano” di opere scelte, curato da Rolando Damiani, che
ha scritto una superba prefazione, e da Nico Naldini, che di Comisso è stato
amico, editore, biografo. È una compagnia molto adatta per questi pomeriggi
estivi, già attraversati da un’aria che anticipa settembre. Dopo l’afa e la
polvere, il paesaggio ritrova una freschezza che trasuda anche da queste
pagine. Sembra che non ci sia soluzione di continuità tra quello che ci trovo
descritto, il paesaggio della campagna veneta di un secolo fa, le avventure
sulle sponde dell’Adriatico e il verde che mi passa dalla finestra. L’italiano
di Comisso scorre con la leggerezza elegante di uno stile pulito, asciutto e
necessario; pochi tratti essenziali per un personaggio, che spesso occupa righe
minime; rapidi affreschi per i panorami. La velocità è tutto, per questo
scrittore che ha saputo farsi, molto più modernamente di altri, reporter di se
stesso, filtrando il meglio che poteva venirgli dalla tradizione. Aveva ragione
Sandro Penna a riconoscerlo come il suo vero maestro: questi racconti sono
pervasi da una sensualità avvincente, che rivela un rapporto simpatetico con la
realtà, con il mondo osservato, con gli incontri e le esperienze vissute. Ma
Penna guarda anche dietro le spalle di Comisso, e come D’Annunzio, risolve
quella simpatia in una relazione trasognata. E non si limita a questo: guarda
ancora più indietro, fino a ridiventare arcaico, a ricreare la purezza di un
primitivo che osserva il mondo senza studiarlo, ma con l’infinita sorpresa di
ritrovarcisi. Per questa via, diventa universale. Comisso invece è sempre lì,
concreto, contingente, avvinto a ciò che narra come un innamorato consapevole
dei limiti e della fine di ogni amore, e per questo niente affatto turbato
dalla perdita. I suoi finali ci lasciano un po’ sospesi, come se tutto dovesse,
o potesse ricominciare analogamente in un altro luogo e con altri personaggi. Penna,
al contrario, fa dei suoi fanciulli un’unica entità, una sola astrazione: il
suo non è un passare di esperienza in esperienza, ma l’eterno ritorno
dell’uguale. E così, infatti, accade, al punto che non si riesce a staccarsene.
Né da lui, né da Comisso. Ma entrambi restano felici, forse gli scrittori più
felici del secolo scorso, anche quando si lamentano. Magari proprio dell’estate,
e a ragione, come in questo brano:
La tanto desiderata estate infine
ossessiona, non per il caldo, per la sete o per l’insonnia, ma per l’orgasmo
precipitoso della folla che vuole muoversi in tutte le direzioni per bruciarsi
di sole, per intridersi di polvere, per insozzare l’acqua del mare, per
spargere carte unte sull’erba dei prati montani.
mercoledì 13 agosto 2014
AILANTO n. 5 - Su Luciana Frezza
Quella di Luciana Frezza,
scomparsa a Roma, dov’era nata, nel 1992, può definirsi una presenza discreta
nella poesia italiana del secondo Novecento. Conosciuta e stimata anche come
traduttrice, soprattutto della poesia francese dell’Ottocento, richiesta per
questo da editori come Einaudi Feltrinelli e Rizzoli, ha pubblicato in vita
diverse raccolte a partire dagli anni cinquanta, tra cui ricordo La farfalla e la rosa, voluta da Giorgio
Bassani nella biblioteca letteraria della Feltrinelli; la stessa dove apparve Le porte dell’appennino di Paolo
Volponi, per restare in tema di poesia. Negli anni ha affidato la sua opera a
piccoli editori di qualità come Neri Pozza o Empirìa, presso cui apparve,
proprio nel ’92, il suo ultimo e importante libro, Parabola sub. Il suo nome non è certo sconosciuto agli addetti ai
lavori ed è circolato con autorità negli ambienti letterari tra Roma e Milano;
eppure, nonostante alcune proposte postume (come le poesie di Agenda, prefate da Jacqueline Risset per
Scheiwiller nel ’94) la sua opera ha attraversato un vasto cono d’ombra e molti
dei suoi libri – traduzioni a parte – risultano ormai introvabili, così che
Luciana Frezza ha rischiato di mancare all’incontro con nuove generazioni di
lettori.
Quando un autore muore, entra in
una sorta di tunnel. Per renderlo corto, il più corto possibile, occorre un
pubblico consolidato, o l’intervento di un lettore autorevole. Ciò che non è
mancato alla traduttrice, ma che è venuto meno al poeta. Nonostante la sua
poesia, in vita, abbia goduto di svariati consensi e riscontri critici, dopo la
sua morte un silenzio un po’ sinistro ha avvolto l’opera di Luciana Frezza;
raramente il suo nome è tornato nelle storie, nei panorami, nelle antologie che
si sono succeduti negli ultimi venti anni. Nella fretta riepilogativa di fine
millennio, con la quale interpreti non proprio sereni e informati hanno
combattuto per conquistarsi una fragile autorità, molti nomi sono purtroppo
scomparsi dai regesti della poesia. Dunque è stata una vera sorpresa, e
aggiungerei felice, che gli Editori Internazionali Riuniti abbiano accolto la
proposta di Giovanna e Natalia Lombardo, figlie di Luciana e di uno dei nostri
maggiori anglisti, Agostino Lombardo, di riunire in un solo, ampio volume
l’intera opera in versi della madre, insieme alle prose, che intessono in
effetti un dialogo fitto con le poesie, e agli inediti che sono stati rinvenuti
tra le carte dell’autrice. Il quadro sembrerebbe essere a questo punto
completo, e l’offerta di sicuro interesse, se in realtà il rapporto fra poesia
e traduzione non si fosse svolto, per Luciana come per la maggior parte dei
poeti, su un piano paritario, ovvero sullo stesso piano, con le stesse energie.
La traduzione non ha rappresentato un ambito a parte, un’attività collaterale o
addirittura secondaria: è stata, eticamente, lo stesso uso della parola per
giungere al fondo di una condizione umana. Attraverso i francesi Frezza ha
continuato a interrogare se stessa, ha tentato di sciogliere quei nodi, quelle
tensioni che l’hanno accompagnata fin da quando si laureò con Ungaretti, a
Roma, ma con una tesi su Montale.
Tutta la sua poesia, fin dagli
esordi, si attesta come un campo relazionale, come cronaca di incontri e
affetti che hanno segnato un’intera esistenza. All’interno di questa rete le
tensioni inevitabili sono veicolate spesso attraverso il ricorso a una
struttura più profonda come quella del mito, e si tratta invero di archetipi
inferi. Si avverte, nelle relazioni femminili (madre-figlia e simili), l’occulta
ambiguità, tra affetto, possesso, liberazione coatta, che si agita nella
vicenda di Demetra e Persefone; e ancora infera è la declinazione mitologica
dei rapporti tra la dimensione femminile e quella maschile, dominata questa
volta dalle figure di Orfeo e di Euridice, o di Iside e Osiride. Questi ricorsi
al mito sono resi espliciti in Parabola
sub, titolo che sembra alludere proprio al lavoro di discesa e di “scavo”
(ancora Ungaretti) in un comune retaggio ancestrale, ma la matrice siciliana li
richiama, li evoca, direi che li esige fin dai testi di Cefalù e altre poesie, con cui Frezza si presentò ai lettori per la
prima volta. Da poeta che viene dopo i fasti rigenerativi della modernità,
Luciana Frezza ha potuto veicolare i contenuti di quelle storie in maniera
nuova, per portare allo scoperto la radice di quelle contraddizioni, di quelle
tensioni, per l’appunto, di cui il mito è solo il riflesso; Euridice ha tratti
che sembrano eludere ogni sottomissione, maschile e femminile si trovano sul
terreno di uno scontro dialettico piuttosto che su quello di una pacifica e
convenzionale convivenza. La lingua riflette queste oscillazioni, nelle
aggettivazioni e nelle immagini insolite, nel dialogo con l’altro testimoniato proprio dalla
frequentazione dei francesi come da quella di Montale. Allora, letta in
diacronia, dispiegata tutta insieme in questo volume - al quale ci auguriamo
che un giorno possa affiancarsi quello delle traduzioni – questa poesia si
attesta come fiancheggiamento di un divenire intenso e problematico, sotto cui
si agitano viaggi e metamorfosi; e il mare di Cefalù sembra quello di Valéry, o
quello ligure del primo Montale, che ci strappa dalle certezze della fissità.
Luciana Frezza, Comunione col
fuoco. Opera poetica, Editori Internazionali Riuniti 2013, e. 28,00
Alziamo i calici
Non crederli gigli appassiti
mi conforta anzi scintillanti
ancora i tuoi bicchieri alzati
voglia di gioia negata
impuntatura librata
per forza propria ape e fiore nell’aria
dove ancora salgono e il brutto
muso di lutto pret
a porter che detestavi cade
come buccia dal frutto.
© Dino Ignani per la foto di
Luciana Frezza
mercoledì 6 agosto 2014
AILANTO n. 4 - Su Mario Santagostini
«C’è un gran casino, compagni».
Così Santagostini definisce se stesso in rapporto a una topografia suburbana,
mentre si proietta nel passato per consegnarci un ritratto di sé nel pieno
degli anni Settanta, delle loro attese collettive, delle disillusioni
politiche. C’è come una doppia voce, in questo libro: quella che cerca
direttamente di mimare il vuoto aurorale da cui tutto potrebbe (poteva) ancora
avere un inizio, e quella narrante, matura, che le si sovrappone commentando e
che spinge l’altalena tra l’incanto e il disincanto. La lingua di queste poesie
scorre registrando l’impasse del pensiero, i dubbi e i segnali incerti
dell’esperienza: «Sono arrivato a chiedermi», «Mi chiedo se», «non si vedeva
dove», «non dovrebbe mai succedere», «Pensavo», «viene da dire». La realtà
passa al filtro del come se, diventa immagine, metafora. E tutto il libro una
densa e problematica allegoria. Eppure in questa riproduzione così schietta e
difficile del proprio vissuto, sembra esserci ancora posto per l’ingenuità -
nel senso più alto e poetico del termine - e la sorpresa. Lo spazio della
felicità. Se la felicità, come recita il titolo, è «senza soggetto», è perché
Santagostini ha voluto collocarla in quella speciale dimensione, tra due poli,
che sono la materia e l’infinito. Forse, fuor d’allegoria, vita e poesia:
«Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso,
aspettiamo». Sono gli ultimi versi dell’intero libro.
Non si tratta però di uno stallo:
piuttosto è una tensione. Si spiega allora, tra le altre rievocate in queste
pagine, la presenza di Petrarca, con il suo felice (per noi che possiamo leggerlo
e interpretarlo) rovello; ciò che lo lega ad altre figure, solo apparentemente
distanti per quella straordinaria anamorfosi che è la storia umana, ma in
realtà ricche di contatti. L’infinito, in loro, diviene il «tutto», quella
sorta di «maratoneta / eterno in viaggio / verso l’io». Sironi, Van Gogh,
Hopper. Una linea impossibile nella storia della pittura moderna, tra
espressionismo e realismo, eppure un’onda, un fluire carsico che lascia
affiorare nei particolari e nei colori tutta l’inquietudine e l’irrequietezza
di un soggetto di fronte alla sua epoca, anche quando si tratta di un ramo
fiorito o di una stazione di servizio. Ma questo è il punto: il soggetto è
destinato a scomparire, e quella felicità appena intuita nel cuore del
contrasto è consegnata ad altri. Santagostini sa provocare efficaci
cortocircuiti, sdoppiandosi nei panni degli artisti e dei poeti amati, in parte
arrivando a riflettersi in loro per poi negare ogni identità: i personaggi non
sono mai loro, ma creature metamorfiche, calata ognuna nel suo destino. Anche
Mario Santagostini nonno diventa, nella sua cecità, un «semitiresia».
Se la lettura è esatta, la
rievocazione di queste figure fa da cartina di tornasole, da reagente alla
coralità degli anni che il poeta rievoca. Anni fatti per l’appunto di una
«felicità senza soggetto», perché il soggetto non poteva amarsi, ma disperdersi
in un paesaggio dove la natura occupa uno spazio minimale, anche se in
apparenza. Sopra le mimose, e le vespe e le libellule così insistentemente
richiamate, stava e sta un cielo di lampi che può ancora rompere la pietra
della lingua; quella «pietra scalamitata» che ha il potere di guarirti, se le
passi accanto.
Mario Santagostini, Felicità
senza soggetto, Mondadori 2014, e. 17.00
(Io, nel 1985. Ma pensando altri anni)
Guardo il gasometro,
le case Aler, una fila di box, il
tram
quando frena. Una volta, sognavo
qualcosa di meglio
della materia, e della vita.
Ora non sono in grado
d’aspettarmi nulla, l’eterno
poteva essere diverso.
venerdì 1 agosto 2014
Franca Alaimo su Solstizio
Sul sito “La Recherche" (www.larecherche.it) segnalo una nuova recensione su Solstizio. L'autrice, Franca Alaimo, affronta i temi del linguaggio e offre un a lettura anche metapoetica del mio libro, con osservazioni per me molto importanti.
Grazie, Franca.
Grazie, Franca.