È appena apparso da Passigli, nella collana a cura di Fabrizio Dall'Aglio, il nuovo libro di Nicola Romano, D'un continuo trambusto. Posto qui la prefazione che ho scritto per l'occasione. Auguri!
Il
trambusto è continuo, recita il titolo di questa nuova raccolta di Nicola
Romano. È un aggettivo che condividiamo, ma non si tratta di una semplice
consonanza. Non ci sono prospettive a convergere, nella galassia globale dove
tutto, ormai, sembra davvero essere «continuo», sia che giunga ai sensi
attraverso la vista, o l’orecchio, o la visione, come in un celebre libro di
Italo Calvino, che faceva della continuità una categoria dell’invisibile.
Romano, invece, è un poeta del concreto: con la sua scrittura, di volume in
volume, ha tracciato, disegnato i contorni di un paesaggio cittadino e
famigliare, e li ha riempiti di immagini nette, precise come i suoi affetti; ne
ha scandagliato la sostanza più intima, le più remote lacerazioni, spartendosi
tra toni che solo con approssimazione potremmo definire civili e momenti di più
evidente lirismo, proprio in anni di reiterati attacchi a qualsivoglia pretesa
di soggettività. Da questo punto di vista Romano è il soldato che difende la
roccaforte, aspettando i tartari; l’ultimo che possa ancora padroneggiare,
senza tema di incoerenza, gli strumenti dell’io.
Anche in
queste poesie l’altalena si ripropone, e forse in modi ancora più ricchi e
complessi che in passato. Il poeta tocca corde varie e vari sono i registri a
cui ricorre, pur dentro un’insolita compattezza di dettato. Si trascorre dal
bozzetto urbano all’autoritratto psicologico, passando per un certo
impressionismo intimistico o per improvvisi squarci paesaggistici che ambiscono
al più ampio affresco. Eppure, dietro questo vortice espressivo, e sotto il
brulichìo del presente, si avverte l’azione di un unico, inesausto motore: una
sola dolente matrice che chiede di riscattarsi in gioia, mimando una denuncia,
manifestando il disinganno. È il motore della contraddizione. Non nel senso
dell’antinomia, ma in quello della critica e del contrasto. Un’opposizione
assoluta, determinata. Con le armi della poesia Romano difende il territorio
che caparbiamente ha costruito negli anni e in cui ama riconoscersi. Non è un
territorio vasto e non rimanda ad alcuna eroicità. Anche per lui, come per
altri autori della sua generazione, si potrebbe ricorrere alla scontata formula
di un’antiepica del quotidiano, se non gli accadesse, nello sforzo e nella
ricerca della poesia stessa, di circoscrivere un’ontologia, che si palesa
anzitutto nella scelta del genere e nell’impostazione della voce. Per lui,
ultimo tra i lirici, quella difesa non è un atteggiamento, né una battaglia di
cui fare materia per facili versi. È piuttosto la spinta, continua, verso quella regione dove la parola recupera tutta la
propria forza e la lingua, ovvero l’identità, rinviene il punto esatto della
decantazione, della liberazione dalle scorie del vissuto.
Viene da
chiedersi, a questo punto, quale sia il vero vissuto di un poeta come Romano.
Perché in realtà c’è come una patina sensoriale attraverso la quale i fenomeni
giungono al soggetto, per essere filtrati e trasferiti sulla pagina. In questo,
Romano è coerente con l’asse percettivo della modernità, a cui però sembra
guardare con un certo riservo, cercando (o mirando a cercare) il colloquio con
una tradizione più vasta e antica. Insomma, ancora una volta poesia e vita
giocano a scambiarsi i ruoli, di qua e di là di uno stesso palcoscenico. Ora
Romano è in scena, ora osserva dietro le quinte, ora siede sornione tra il
pubblico. Il suo vissuto trapassa, come in un processo di osmosi, tra ciò che
gli è più prossimo e saldo e ciò che inevitabilmente crea disturbo e
lontananza. Così, allo stesso modo, mutano i suoi toni. E se la prossimità
delimita la sicurezza, evidenzia un milieu
affettivo (intendendo anche l’affettività come una forma di conoscenza o
addirittura di trascendenza, come ha ben intuito quel maestro di modernità che
è Leopardi) e lascia aprirsi una finestra sugli interni di una vita domestica,
come in quadro di Vermeer, la lontananza non rinvia ad alcuna nostalgia, perché
è priva di spessore temporale. Ogni verso di Romano ci lega al suo e al nostro
presente, e proprio per questo ci invita a frequentare il versante di
un’inattualità tutta da costruire, tenacemente, nel resistere della poesia.