Quando
accade di leggere le poesie di Maria Clelia Cardona, la prima impressione è
sempre quella di una certa patinatura classica. In questa direzione si sono
spesso mossi i suoi interpreti più attenti, da ultimo Giovanni Tesio, che firma
la densa postfazione alla nuova raccolta, Di
fiato e di fuoco, apparsa nelle Edizioni Coup d’idée nella bella collana
«La costellazione del Cigno», curata da Stefano Agosti. In effetti anche in
questi versi recenti la presenza dell’antico e del mito (ché di questo si tratta,
e non sempre vengono a coincidere con questa o con quella idea di classicità)
si conferma come un tratto non secondario della poesia di Cardona; ma sarebbe
già sufficiente l’epigrafe da Eliot («Non voglio sentir parlare della saggezza
dei vecchi, bensì della loro follia»), tratta da East Coker, uno dei celeberrimi «quartetti», a suggerire qualche
altra ipotesi, o per lo meno a calibrare il giudizio.
Eliot
è sempre una spia interessante, quanto insidiosa per ogni interprete: ma è
evidente che con lui siamo posti di fronte a una modernità critica, forse già
agonizzante nel momento del suo massimo splendore, ammesso che di questo si
tratti: il Novecento ha una luce tutta sua, un po’ infera, fatta di bagliori,
di intermittenze, di lampi di guerra. Una luce di trincea, sotterranea (vale la
pena ricordare che l’ultimo libro di racconti di quest’autrice, del 2013, si
intitola Sottoroma). Eppure questo
carattere, ctonio e sulfureo, ha consentito al «secolo breve» di affacciarsi
dentro se stesso come forse nessun altro secolo prima. Non è un caso che alla
citazione eliotiana faccia seguito un'altra proprio dall’Inferno. Siamo nel canto di Ulisse. Insomma, a volersi davvero
conoscere (o ri-conoscere, che è l’arte vera del poeta), ci si imbatte
inevitabilmente nell’antico e nel mito. La conoscenza, di sé e
dell’altro-da-sé, è forse il vero leitmotiv del libro. Come Eliot
strumentalizza l’antico, lo fonde con il moderno, inseguendo i propri flussi
analogici e atemporali, così Cardona evita di rivestirsene, e affronta
direttamente il cuore della questione, neppure attualizzandola, ma portando
alla scoperto un’attualità insita nella domanda che tutti ci siamo posti:
perché Ulisse è ripartito? O meglio: chi o cosa può averlo indotto a quella
decisione che per Dante si rivelerà estrema e fatale, facendo per sempre di lui
il più presuntuoso tra gli eroi? E in questa nuova tragedia che si annuncia,
quale sarà il ruolo di Penelope?
Proprio
a lei Cardona cerca di dare voce. Penelope, la più silenziosa tra le
protagoniste omeriche, finalmente può innalzare, da parte sua, Il poema del non ritorno. E può farlo,
come scrive il poeta, riconoscendo il «canto della non ragione». È una
scrittura al negativo, la sua; l’ammissione di una distanza, il tarlo
dell’estraneità. Ulisse è destinato come sempre a «intenebrarsi» (bellissima
immagine che mette a fuoco tensione e destino di questo personaggio), quella
che persegue è una conoscenza che guarda al fondo e non alla complessità della
natura, non all’orizzontalità del mondo fisico. Che, altrettanto inevitabilmente,
si riduce a un sistema di simboli. Con questa consapevolezza, proiettata
nell’animo di una donna il cui stato è andato già ben oltre la delusione,
Cardona riconosce l’«entropia» dei rapporti amorosi, disposta perfino ad
ammettere le insidie dell’infinito quando si tramuta in un’ossessione, e dunque
in una cella. In questa «follia» un po’ nietzscheana che pervade la sua
Penelope riconosciamo un possibile punto di fuga, e forse un riscatto, una
salvezza anche nell’ironia, che è certo estranea al mito se non in forma di
beffa. Odisseo è davvero diventato il «nessuno» da aspettare: niente più di un calembour.
Maria Clelia Cardona, Di fiato e di fuoco, postfazione di G. Tesio, Edizioni Coup d’idées
2016, e. 14.00
Chissà verso dove
Ora
di te
più non so, che come sempre
t’intenebri
e ti chiama e disegna
quel
profilino d’ombra che eri.
Oh,
disperso, vagolante fra le cianfrusaglie
dei miei
pensieri – come sempre ci distrae
il
dolore per poi meglio afferrarci di sorpresa –
un
alcione marino che si posa sul davanzale
e
subito se ne vola
chissà
verso dove.